lunedì 26 dicembre 2011

Nuove strategie di pastorale vocazionale

L'ottavo e il nono episodio della serie anime Yomigaeru Sora descrivono per analogia, ma con sorprendente precisione, la dinamica della vocazione. Un giovane in fuga dalla famiglia incontra due militari in vacanza. In una situazione di emergenza, i due lo coinvolgeranno - loro malgrado - nel mettere in salvo delle vite. Il giovane ribelle, vedendoli personalmente in azione, vedendoli possedere il significato delle cose, resterà a poco a poco affascinato da quel mondo che ha inaspettatamente incontrato, sorprendendo infine suo padre col manifestare l'intenzione di entrare nelle forze militari per vivere allo stesso modo di quei due.

Alle origini di una vocazione c'è sempre un irresistibile fascino per una vita investita per qualcosa di talmente grande da far sembrare trascurabili tutte le fatiche affrontate. Solo che è generalmente impossibile arrivarci per ragionamenti, depliant o discorsi: occorre vedere con i propri occhi, liberi da pregiudizi, perché vale la pena fare quel tipo di vita. Ti si stampano in testa anche quei dettagli apparentemente secondari, come quella malcelata soddisfazione che si legge nel volto di uno dei due militari per aver correttamente compiuto la propria missione. Tutto questo è diretta conseguenza del fatto che la fede si trasmette “per contagio”.

In realtà tutta la serie Yomigaeru Sora è una storia di una vocazione: il protagonista, che aspirava a diventare pilota di jet, è invece assegnato al reparto elicotteri della protezione civile, cosa che lui interpreta come una vergognosa degradazione. Alla quale seguono comunque fallimenti, fatiche e incomprensioni. Che però gli apriranno gli occhi: nello scoprire a poco a poco il senso di ciò che fa, si accorge anche di desiderarlo, non perché si stia faticosamente rassegnando ad accettare quella vita ma perché ne scopre il significato, infinitamente più vasto delle sue previsioni. Perché ha davanti un padre, un adulto da seguire, una guida.

Nell'animazione giapponese, anche quella più commerciale, sembra esserci un riferimento piccolo ma costante ad un cristianesimo pienamente vissuto. Come se per vendere occorra risvegliare una nostalgia del cattolicesimo che hanno estirpato. Per cattivarsi un pubblico adulto, mentre in Italia si gioca su romanticismi e volgarità, in Giappone si racconta invece di coraggio e passione. Mentre i protagonisti delle fiction italiane si interrogano pensosi e distratti sulla confusione che hanno in cuore, quelli degli anime di livello medio-alto trasmettono - perfino loro malgrado - una passione, una certezza, dunque una speranza. Nel nostro paese, per vendere, occorre produrre storiette tra il volgare e il banalmente sentimentaleggiante; in Giappone, per vendere, bisogna parlare di passione per la realtà, bisogna far eco del cristianesimo, bisogna mostrare in modo convincente come nasce una vocazione.

martedì 20 dicembre 2011

domenica 4 dicembre 2011

Il pranzo di Babette

Ci vuole un protestante per dissacrare e umiliare senza appello anche il protestantesimo più candido. Le opere di carità non bastano a riempire la vita, l'osservanza rigorosa non basta a rendere felici, l'attenta partecipazione alle celebrazioni non sazia l'anima, persino quando tutte queste cose riescono ottimamente: ci volevano dei protestanti sinceri per accorgersene e per documentarlo.

Il protestante o finge di dimenticare o vive di rimorsi: ecco il risultato dell'aver cancellato il sacramento della confessione. Mettono una feroce tristezza i colori cimiteriali di quegli abiti e quei sorrisi prefabbricati del Decano. Perfino il cibo, sebbene servito con tutti quei riguardi, è un puro nutrirsi - fino a quando il pranzo di Babette dimostrerà qualcosa di nuovo e di imprevisto.

È in fondo in fondo il cattolicesimo il vero protagonista del film. Protagonista nascosto e citato solo per essere deriso: “ah, papista, certo, sì, sono cattolico”. Ma che emerge prepotentemente in alcuni momenti della vita delle due sorelle. Quando il peccatore incallito Achille entra nella loro storia dimostrando, paradossalmente con la propria debolezza, che quella vita in ottemperanza alla Bibbia censura qualcosa di grande. Quando è la Babette a cucinare i pasti per i poveri, dimostrando che la prima vittima del regolamentismo protestante è la passione per il reale. Quando è la Babette stessa a cucinare il pranzo che solo il Generale - uomo che ha visto il mondo, non soltanto un villaggio, uomo che ha visto arte, bellezza, passione, non soltanto le celebrazioni della Parola - solo il Generale saprà ammettere di apprezzare quel notevole atto di carità che solo al termine - e quasi con ritrosia - verrà compreso anche da altri (il legalismo protestante è fondamentalmente incapace di atti di carità più grandi dello stretto necessario).

Nonostante i loro vistosi limiti Babette, il Generale, Papin, iniettano nuova vita (talvolta involontariamente) a quel funereo mortorio protestante senza fare nulla di riconoscibilmente “papista”. Sono semplicemente estranei al moralismo puritano, hanno soltanto quel po' di passione per la realtà, tirano conclusioni senza doverle incastrare in qualche versetto biblico. I protestanti han saputo darsi delle regole durissime (come ad esempio nella riunione precedente al pranzo di Babette) e riescono perfino a seguirle fino in fondo, ottenendo però continuamente la dimostrazione che un cristianesimo fatto di regole conduce solo alla tristezza. Una carità fatta di regole conduce a dissapori e liti. Un cristianesimo ridotto a perfetto elenco di giustissime norme rende la vita grigia, cupa, impoverita.

Il cattolicesimo è qualcosa di vivo. Il cattolico vero, anche il più scalcagnato, trasmette (persino involontariamente) ciò che era vivo e che non era sopravvissuto al legalismo protestante.

Quando il cattolicesimo comprime e riduce la passione per la realtà allora è già irreversibilmente protestantizzato. Quando qualcuno accusa la Chiesa “papista” di essere una religione di dolore, di normative, di autoflagellazione, allora sta in realtà affermando di aver conosciuto una Chiesa protestante e legalista. Quando i giovani spariscono dalla parrocchia per banalissimi motivi, stanno in realtà scappando da un asfissiante puritanesimo travestito approssimativamente da “papista”.

Vasti settori della Chiesa cattolica soffrono oggi di quel cancro. Autoreferenziali, protestantizzati, asfissianti, burocratizzati, castranti, persino quando apparentemente predicano contro quelle stesse cose. I loro “seguaci”, come nel villaggio delle due sorelle, vi aderiscono più per volontà che per convinzione, più per forza d'inerzia che per attrazione, più per doverismo che per necessità. Le parrocchie dove “tutto funziona” sono come quel villaggio: un ambiente pulito ma grigio, preciso ma funereo, perfetto ma asfissiante, dove domina quel senso di vuoto, quel fardello sempre più faticoso da sopportare.

Papa Giovanni Paolo I disse che il dramma della Chiesa che ama definirsi moderna è l'aver tentato di sostituire lo stupore dell'evento di Cristo con delle regole. La protestantizzazione massiva, attuata per di più dall'interno della Chiesa stessa, è stata calata dall'alto su tanti fedeli, riducendo l'ambiente delle parrocchie al villaggetto degli ottemperanti alle regole, banalizzando la passione per la realtà a fastidioso uzzolo di chi ha tempo da perdere, cassando via - o costringendo in una “riserva indiana” - chiunque abbia la sventura di avere un “carisma” sprovvisto di potenti appoggi curiali.

Bisognerebbe far vedere al parroco questo film e spiegargli ogni scena, ogni parola, ogni espressione di ogni volto. Fargli capire che perfino nella più onesta intenzione di “donare al Signore” la propria vita, si rischia di fare la fine delle due sorelle. Fargli notare che il “cattolico papista”, nonostante i propri limiti, è ordinariamente capace di gratitudine senza sforzo (e -aggiungo con un ghigno- senza dover scomodare la Bibbia). Farlo interrogare sul fatto che quell'atteggiamento sottilmente castrante produce un paradiso di plastica, un villaggetto dove tutto va bene e tutti cantano insieme alla celebrazione settimanale ma senza riuscire ad esprimere altro che una grigia ombra. Fargli notare che la carità invisibile di Babette, impossibile da misurare, impossibile da descrivere nei documenti pastorali, è frutto di una passione per la realtà piuttosto che di uno sforzo di volontà, è frutto cioè di un moto del cuore piuttosto che di un'adesione a delle regole.

L'ossessiva somministrazione di spremute di Bibbia non giova ai fedeli ma li appiattisce e li annoia. I fedeli hanno bisogno del Sacramento, non del Libro. I fedeli vanno educati alla realtà totale più che al controllo dell'osservanza delle regole. Il parroco dovrebbe capire che il contrario dell'immoralità non è il moralismo, il contrario dell'impurità non è il puritanesimo, il contrario della tristezza non è l'allegria (tanto meno quella prefabbricata) ma la letizia (che non si può programmare come se le persone fossero computer), il contrario delle chiacchiere inutili non è un sermone costellato di citazioni bibliche. Altrimenti prostitute e peccatori (come quei tre “criptocattolici” del film) passeranno avanti nel regno dei cieli.

domenica 20 novembre 2011

L'albero degli zoccoli

Tre ore ben spese: questo film mi ha fatto bene perché è stata un'altra conferma che la comunemente deprecata nostalgia di una civiltà cristiana non è un pio sogno ma è storicamente fondata.

La società cristiana era davvero così: permeata di umanità e di fede, solidissime persino nella fatica e nella miseria. Il cristianesimo come qualcosa di normale, di ordinario, di quotidiano: non un fardello di regole ma il naturale procedere della vita. Lavoro, preghiera, famiglia, era un tutt'uno. Le virtù cristiane non erano per gli specialisti, la fede non era un passatempo da annoiati.

Un film da far gustare a chiunque pensi che il cristianesimo sia un elenco di regole, a chiunque creda che la fede sia un orpello di cui volentieri se ne farebbe a meno, a chiunque sospetti che la religione sia in fondo in fondo l'oppio dei popoli. Un film che involontariamente dimostra che la società moderna è un coacervo di strane malattie spacciate per diritti, dove il lavoro non è sinonimo di dignità o almeno di passione, dove la natura è quella del cretinismo ecologista, dove i rapporti umani sono in fin dei conti animaleschi e di sfruttamento, dove la soppressione della sfera religiosa ha fatto nascere un'articolatissima foresta di rituali civili e formule magico-religiose da pronunciare in ogni occasione.

Vale davvero la pena di vederlo senza doppiaggio in italiano e senza neppure informarsi sulla trama.

martedì 15 novembre 2011

Frattaglie / 10

Seguono altri paragrafi disordinati e sparsi, troppo brevi per diventare “post” sul blog.

Miyazawa Kenji, letterato poliglotta e curiosissimo (buddista)[1] nelle sue opere fa trasparire di continuo riferimenti al cristianesimo: figure ricalcate su missionari, il tema del viaggio, accenni al Paradiso. «Aveva capito bene il potenziale drammatico della tradizione cristiana, e sapeva sfruttarlo. Ma vi ricorreva anche per introdurre una consolazione che nel buddismo, a cui pure è così devoto, non esiste». Il “potenziale drammatico”, perché il cristianesimo è qualcosa di vivo, non è un orpello appiccicato addosso alla vita.

Alcune rare volte, nella vita, mi è capitato in chiesa di stupirmi nell'ascoltare certe donne cantare quelle querule e insignificanti canzonette parrocchiali dandovi vita. Proprio come avviene nell'orwelliano 1984, dove il protagonista resta meravigliato che una lavandaia, canticchiando un motivetto fabbricato automaticamente dalle macchine sforna-romanzi e sforna-canzoni del regime, riesca a darvi come un'anima. La violenza di regime consiste proprio nel pretendere che “tutti” abbiano quella capacità della lavandaia e che la utilizzino “sempre”.

Lo squallore artistico e musicale in cui si rotola certa Chiesa moderna è fondato sulla pretesa di stabilire autonomamente cosa sarebbe la bellezza.

“Noleggiami”, recita il cartello sul vecchio veicolo che sembrava abbandonato in periferia. Siamo in un'epoca in cui non si sa più conferire vita e significato. Perciò ci si aspetta che lo faccia il cliente (e che naturalmente paghi per farlo).

Il declino di una civiltà è proporzionale alla percentuale di persone che sogna di vivere di rendita. Corollario: in tempi di crisi, impazzano il gratta e vinci e il calcioscommesse.

Ritrovo un vecchio appunto in cui ci si raccomandava di andare alla Messa pro Iraq. Un gesto televisivo che oggi nessuno ricorda più, nemmeno io che ci andai. Nel mondo cosiddetto occidentale è la televisione che decide quale sia la preoccupazione principale giornaliera che tutti devono avere. Perfino il pregare per i sofferenti diventa un'operazione da programmare nelle Alte Sfere mentre i Personaggi del Momento diluviano le solite affettate frasi di circostanza.

Bambine in autobus che parlano di vacanze. E tu invece dove vorresti andare? “Ai Caraibi”. Ma se non sai neppure dove sono! Hai solo otto anni e non sai neppure tornare a casa da sola, e affermi di voler andare “ai Caraibi”? Quale è dunque l'agenzia educativa a cui appartiene il catechismo che stai recitando?

Questa è un'epoca di schiavismo perfetto, poiché la maggioranza assoluta degli schiavi pensa di avere tutte le libertà. Eppure è così facile riconoscere gli schiavi. Per esempio: coloro che inveiscono contro l'universo, lagnosi e sdegnosi: “ma io ne avevo proprio bisogno, di quei soldi!” Oppure, per esempio: quando bramano di apparire seducenti dicendo “e per centocinquanta euro?”


1) Citazione ripescata da Tracce.

sabato 12 novembre 2011

Caduto Berlusconi: tutti impazziti di gioia

Qui è bellissimo, avresti dovuto esserci anche tu! È una data storica, i nostri figli la studieranno nei libri di scuola! Sì, ci stiamo recando anche noi là, qui tutti impazziti, sono tutti impazziti di gioia!


Non è la citazione da Il padrone del mondo di Benson[1] ma solo qualche brano di una concitata telefonata di uno studente stasera.


1) Nel romanzo di Benson il tripudio della folla è dovuto al fatto che «è scoppiata la pace».

giovedì 10 novembre 2011

Frattaglie / 9

Altri paragrafi sparsi e isolati, troppo brevi per diventare “post” sul blog.

A quell'età in cui si prova l'ossessione di voler trasgredire, facendo qualsiasi cosa contraria al buon senso pur di mostrarsi liberi e grandi, me ne capitò una che mi ha segnato per tutta la vita. Un compagno di scuola mi disse: «ma tanto i miei non dicono nulla, lo sanno», lasciandomi di stucco. Davvero? Possibile? Ciò che a casa mia era vietato prima dal buonsenso che dai miei genitori, lui diceva invece: «ma tanto i miei non dicono nulla, lo sanno». Da giovane scoprii dunque che la morale varia di fatto a seconda delle coordinate geografiche.

Nel vedere ieri quella locandina del cinema, mi affiorava un ricordo: un padre missionario ci raccontava che nei primi tempi che era in Africa si meravigliava che il venerdì sera gli adulti sparissero tutti dal villaggio. Dopo un po' scoprì il motivo: andavano nell'unica capanna dotata di televisore a seguire, con religiosa perseveranza e ancor più religiosa puntualità, la puntata settimanale di un vecchissimo sceneggiato americano («Dallas», se non ricordo male) che esaltava la figura del bianco di grande successo, racconto ancora più stimolante perché tale successo era dovuto alla freddezza e alla cattiveria. Ah, la figura del Bianco di Grande Successo, che è Cattivo perché Può Permetterselo, ed è Ricco proprio perché Cattivo. E gli africani che lo vedevano come un eroe, lo guardavano a bocca aperta. Si svuotava il villaggio, il venerdì sera: i negri erano tutti davanti alla tivù ad ammirare il Bianco di Grande Successo.

Altra locandina del cinema: rappresenta un uomo e una donna, di aspetto curatissimo e sorridenti, mentre puntano pistole verso il resto del mondo. Vista la locandina, hai già visto tutto il film.

La vera radice della crisi della Chiesa consiste nel vergognarsi di dire chi è Cristo. Tutto il resto è pura conseguenza.

Il giovane Edimar vede un'amicizia, sa che sono cristiani, cambia. Vedere delle persone gli fa cambiare vita. Si trattava di nostri amici del movimento. Edimar li ha conosciuti e ancor prima che qualcuno gli dicesse qualcosa ha già deciso che non vuole più uccidere. Nessun discorso, nessun regolamento, nessuna paura gli aveva mai provocato alcun cambiamento prima. Ora invece ha visto: tra quei cristiani c'è vita. Ha visto e ha talmente capito bene che già ha preso la sua decisione: non uccidere mai più, non partecipare più agli assassinii di cui la sua gang era specializzata. Gli è bastato “vedere” per cambiare drammaticamente, totalmente, senza fatica e senza dolore, l'intera sua morale. E per questo cambiamento viene tranquillamente ammazzato dai suoi compagni della gang. Martirio, punto e basta. Un emerito coglione di ecclesiastico la butterà sulla politica: «CL non ha bisogno di martiri “suoi”», disse sdegnoso e saccente. Il dramma tragico della Chiesa oggi: vergognarsi di dire chi è Cristo. Con tutto ciò che ne consegue.

Uno va lì in chiesa col cuore sanguinante e mendicante assoluzione... e vede il pretino abbandonare di gran carriera il posto di combattimento. Strana, questa Chiesa moderna, fatta di preti indaffaratissimi che non trovano un minuto per ottemperare ai doveri del proprio stato. Indaffaratissimi come il monaco che san Benedetto vide tentato dal demonio: il demonio, per allontanare il giovane monaco dai doveri di stato, lo tirava per la veste suggerendogli un milione di cose importantissime e urgentissime e utilissime da fare. San Benedetto risolse efficacemente il problema somministrandogli un adeguato cappotto di legnate.

venerdì 4 novembre 2011

Un anonimo benefattore ti desidera

“Vieni a giocare i tuoi numeri fortunati”, recita il messaggio pubblicitario mentre sullo sfondo si vedono apparecchiature meccaniche ed elettriche programmate per spennare i polli umani.

“Vieni”: il messaggio comincia con la parola più invitante per il cuore. Gustale lentamente, queste due fragili sillabe: “vieni”. È la dolce parola che ti pronuncia sorridendo il tuo benefattore, è la delicata ed invitante parola che preannuncia l'ospitalità che ti stai accorgendo che desideravi.

“Vieni a giocare”: ti stai imbattendo in una promessa graziosa e allegra, ti vien chiesto non di faticare, non di mettere a frutto ciò che sei, non di impegnarti o darti da fare. Sei soltanto invitato a giocare, perché -come tutti sanno- la vita è solo un alternarsi di sogni e giochi, l'universo è un enorme paese dei balocchi, e tu sei il prescelto che viene invitato a godersi qualsiasi cosa gli passi davanti o per la testa.

“I tuoi numeri fortunati”, eh sì, certo: tre concetti astratti incatenati insieme. Numeri: un concetto astratto. Tuoi numeri: astrazione sull'astrazione, perché tu non sei assoluto proprietario di nulla nell'universo, tutto ti è stato dato, perfino la tua stessa vita non è “tua” perché non te la sei data da te, non sei capace neppure di decidere quanti capelli avere sul capo...

“Numeri fortunati”: già, poiché esistono anche i numeri sfortunati, e tu non sei mica così tonto da giocare quelli sfortunati, eh! E poi, cos'è la fortuna? Sì, quando le cose ti vanno “bene”, sì, ma in che senso? Quando vinci senza fatica? Quando guadagni senza sofferenza? Quando i tuoi umori, desideri, sfizi, vengono soddisfatti senza alcun tuo impegno? E come si materializza la fortuna? Come la si fabbrica al di fuori dei sogni? Come si fa ad inseguirla, sfiorarla, misurarla, accettarla?

Vieni a giocare i tuoi numeri fortunati: è un messaggio per te! Il tuo grandioso benefattore sorridente (e assolutamente anonimo) ti sta invitando... capisci? invitando! proprio a te, unico nell'universo, proprio a te che in cuore hai così tanto forte il desiderio di essere scelto in esclusiva, amato in esclusiva, fortunato in esclusiva, al di sopra di qualunque cosa e di tutti gli altri esseri umani, fatta salva la tua sapientissima generosità che sicuramente troverà il modo per erompere gloriosa davanti a tutti, riconoscibile e premurosa, a tua maggior gloria, a dimostrazione della tua effettiva superiorità.

Il tuo benefattore ti stava inviando quel prezioso messaggio aspettandoti a braccia aperte affinché tu possa giocare anziché lavorare, giocare anziché ragionare, giocare anziché affaticarti, giocare anziché affrontare la vita reale... il tuo benefattore sa meglio di te quali siano i tuoi sogni, e si sfiancherà a morte pur di ingigantirli.

Per questo, mentre ti invita a giocare i tuoi numeri fortunati (astrazione al quadrato, anzi, al cubo) ti fa scorrere l'immagine di una roulette che - sublime visione! - centra proprio un numero, uno dei tuoi numeri fortunati, proprio quello che ti fa Vincere, l'apoteosi del tuo sogno, il godimento inenarrabile e totale, quello che ti fa scoppiare perennemente il cuore dalla gioia, mentre l'oscurità intorno al piatto rende ancora più centrale e assoluta l'immagine del tuo trionfo dei tuoi numeri fortunati.

Poi magari l'alito pestilenziale della vecchina seduta accanto a te si abbatte nelle tue narici e ti riporta alla realtà.

Il seme è gettato nel tuo cuore e presto o tardi porterà frutto. Ma la sensazione di disgusto per quell'alito che puzza di pesanti medicinali mal digeriti ti costringe a guardare di nuovo la realtà: tra poco finalmente sarà ora di scendere - ma che orrenda puzza, stecchirebbe un esercito di pantegane - e già per un attimo in cuore stai accarezzando dolcemente il sogno di poter scendere già subito, immediatamente, lontano dalla sofferenza del dover subire quel mezzo litro d'aria nauseabonda.

Qualcosa non quadra. L'anonimo benefattore non ti ha detto che per giocare si paga una piccola misera quota... che vuoi che sia? non vorrai mica tener fermi nella stalla i tuoi cavalli di razza? I tuoi numeri fortunati (cioè quelli che al momento deciderai che lo sono) devono forse rimanere imbrigliati, frenati, bloccati a causa della tua tirchieria? Vorrai mica perdere la tua grande occasione?

L'anonimo benefattore sembra conoscerti proprio bene. Sa che nel profondo del tuo cuore vuoi essere scelto: e lui ti sceglie. Sa che nelle pieghe più nascoste del tuo cuore vorresti una vita senza sofferenze, solo gioia, senza fatiche, solo letizia, senza tristezze, solo allegria, senza dover spremere le meningi, senza dar olio di gomito, senza imperlare di sudore la fronte... vuoi la bellezza assoluta, non una bruttura che non vedi l'ora di cambiare, vuoi la gioia assoluta e infinita, non la noia e la nostalgia e la necessità di rifugiarti nei sogni...

L'anonimo benefattore sa tutto questo e te lo offre. Ti sta offrendo su un piatto d'argento un'occasione d'oro! Devi solo concedergli un atto della tua volontà, devi solo pagare quel minuscolino minuscolissimo bigliettino d'ingresso, senza fatica, senza pensieri, senza preoccupazioni, solo un semplicissimo atto della volontà, tanto più facile quanto più sei pigro poiché, se cominci a farti domande, allora già stressi e stanchi e sfinisci le tue preziosissime saggissime sinapsi...

L'anonimo benefattore ti farà crogiolare nei sogni più felici che tu possa mai immaginare: sa che in fondo in fondo brami una felicità infinita che cominci immediatamente, sa che tu non sei neppure capace di descriverla, sa che qualsiasi intervista sulla tua felicità tanto desiderata si risolverebbe in un guazzabuglio di risposte rumorose e disordinate e sempre incomplete perché non ti basterebbero milioni di parole per descrivere tutti i rivoli di quell'enorme e infinito fiume di desiderio che hai in cuore.

Insomma, sa che tu desideri il paradiso. Desideri una pienezza totale, una gioia assoluta e infinita, desideri addirittura la... (che deprecabile termine!) ...la salvezza!

E lui te la dà subito (in forma di sogno e adeguata ai milioni e milioni di parole che riusciresti a pronunciare). Tanto, il sogno è accessibile subito, immediatamente, senza aspettare: in qualsiasi momento puoi staccarti dalla realtà e sognare; e lui sì che è un esperto di sogni! In pochissime parole (“vieni a giocare i tuoi numeri fortunati”) è riuscito a cattivare il tuo cuore e a farti sognare gratis senza che tu ancora neppure sappia esattamente dove si potranno giocare i tuoi numeri fortunati (che ancora non sai neppure quali saranno, perché lo deciderai al momento e in base all'umore e a tantissime altre cose che non c'entrano niente con tutto il resto dell'universo).

L'anonimo benefattore, per qualche misterioso motivo, si sta proponendo al posto di Colui che ti ha dato la vita (non te la sei mica data da te). Al posto del paradiso, un sogno di paradiso: la pallina sul trenta, proprio il numero che sicuramente tu avresti deciso come uno dei tuoi numeri fortunati. E te lo mostra lì, in un'immagine rassicurante, un'immagine invitante e accattivante, un'immagine che sembra estratta proprio dal sogno che tra poco avresti cominciato a sognare!

Ora che ci pensi, non è più nemmeno questione di ricchezza e di soldi: quelle sono robe da gonzi, da gente di mezza tacca, non sono mica per il tuo cuore nobile ed elevato, cuore che godrebbe della gran soddisfazione di far vincere nientemeno che i tuoi numeri fortunati.

L'anonimo benefattore è pazientissimo. Saprà aspettare, anche se ha una fretta del diavolo: business is business, e sa che i tuoi sogni - proprio quelli che lui ti propone di godere - non possono (non devono! assolutamente non devono!) star fermi troppo tempo.

lunedì 31 ottobre 2011

Ancora su quegli ''innanzitutto uomini''

Era una piovosa mattina di fine ottobre e il parroco era furente perché i fedeli giungevano in ritardo alla Messa. Al terzultimo banco c'ero io, intirizzito, seminascosto e infreddolito. E in ritardo a causa della pioggia. Erano i tempi in cui di domenica mattina mi occorrevano venticinque minuti a piedi per andare a Messa, salvo avverse condizioni metereologiche. Un'automobile di passaggio (ma di passaggio molto veloce) aveva sollevato un'onda anomala che mi aveva centrato in pieno. Non ero un ragazzino moderno: avevo infatti proseguito di buon passo per la mia strada pensando al conforto che avrei trovato nel Santo Sacrificio della Messa. Trovai invece il parroco infuriato contro i ritardatari, contro quelli che non si tengono per mano al padrenostro, contro quelli che sgattaiolano via immediatamente dopo l'«andate in pace», contro quelli che non sono abbastanza generosi per le iniziative parrocchiali...

In una predica nelle domeniche successive si sarà certamente lamentato anche dei giovani che abbandonano la parrocchia. Ma non potei ascoltarlo: ero infatti diventato anch'io uno di quei giovani. La sua sfuriata di quella domenica di fine ottobre, iniziata con quel “so bene che piove, ma...”, era stata molto convincente: coi pantaloni infangati fino al ginocchio, con un cielo grigio che versava giù a catinelle picchiettando la parrocchia su ogni lato, con attorno l'alito pestilenziale delle vecchiette che mi circondavano, mi ero sentito colpevole di altissimo tradimento alla Chiesa lungo tutto la Messa, riconoscendo l'esecrabile colpa di non aver anticipato la sveglia di un quarto d'ora per prevenire eventuali ritardi dovuti ad eventuali piogge. Ma nel tornare a casa, pensando a tutto fuorché agli ultimi novanta minuti, mi sentivo liberato: non trovavo nulla da recriminare, non più alcuno scrupolo. In qualche modo il vaso era traboccato ed il sottoscritto era improvvisamente entrato a passo deciso nella schiera di coloro che non vogliono più saperne nulla di santa madre Chiesa. Cento campagne di ateismo e mille discorsi anticlericali non avrebbero sortito neppure una frazione di ciò che poterono quelle poche esternazioni del parroco e quel suo sguardo censore mentre puntava il mirino anche verso di me. Se lo sapessero i Radicali, farebbero fuoco e fiamme per vedere approvata una legge che obblighi tutti i giovani ad andare sempre a Messa.

Certo, dopo un po' di tempo, per grazia di Dio, imbattutomi in cristiani più seri tornai (con vera gioia e gratitudine) alla Chiesa cattolica - ma questa è un'altra storia.

Il ricordo di quel parroco e di qualche suo successore mi ha sempre fatto riflettere sull'oscura dinamica per cui nonostante tutti i discorsi e tutti gli auspici oggi la formazione al sacerdozio punta più ad una cultura teologica e ad un generico darsi da fare, che a formare sacerdoti “innanzitutto uomini”. Il principale problema di ogni prete simile al sopracitato è il vivere in una specie di realtà virtuale: parlerà non ai fedeli che ha concretamente davanti, ma alla mutevole (e sempre pallida) immagine di essi che gli gironzola per la testa, quella descritta dai fumosi esami di Pastorale e dalle affettate prediche del seminario. Per cui ignorerà del tutto le loro concrete preoccupazioni, si affannerà in mille raccomandazioni astratte che al più possono interessare chi ha tanto tempo libero che non sa come impegnare, si darà da fare per elaborare sempre nuove Proposte Pastorali per risvegliare dalla fiacca il volubile Laicato e l'evanescente Giovane. Punterà il dito - magari solo per forza di abitudine - anche contro quel giovane che mendicando il conforto spirituale del Sacramento aveva aveva affrontato vento e pioggia.

Doveva essere un problema ben diffuso già mezzo secolo fa: per far infuriare a morte il clero ambrosiano, al don Giussani bastò rispondere: «siate innanzitutto uomini». Non asettici funzionari del sacro, non noiosi dispensatori di frasi fatte, non pedanti elargitori di fardelli di regole, non infaticabili organizzatori e presieditori di riunioni, ma uomini, innanzitutto uomini, perché sarebbe assurdo tentar di realizzare il professionista dell'annuncio di Cristo. Dopotutto è tragicamente facile verificarlo: basta invitare il parroco a cena. Di cosa si può parlare con lui? Con che argomenti gli si accende l'animo? Di che ampio orizzonte culturale dispone? Quanto si deve sforzare per stare al passo coi presenti? Al di là delle frasi fatte, cos'è per lui la vita, la fatica, la gioia, il lavoro, la sofferenza, la vita di famiglia? Ecco: il don Giussani aveva assolutamente ragione. Più vedo certi preti, più capisco che il don Giussani aveva definitivamente ragione. Una volta il mondo disprezzava i preti perché li odiava; oggi li odia perché gli ispirano disprezzo e noia. E li odia buttando nel calderone, come sempre, anche i preti “più uomini” (che però oggi non sembrano essere la maggioranza, al contrario di ieri).

Di fronte al ciarpame liturgico e catechetico attualmente in voga vien davvero nostalgia di quando i preti erano “innanzitutto uomini”. Uomini di scienza, uomini di cultura, uomini capaci di appassionarsi, di immedesimarsi, capaci di vedere con chiarezza ciò che tu riuscivi a stento a intuire. Era il detestato parroco a insistere perché tuo figlio andasse al conservatorio o all'istituto d'arte (e te lo diceva perché sapeva riconoscere meglio di te l'arte), era il deprecato curato a scoprire l'ingegnere o il letterato che avevi per figlio (per essere veri talent-scout bisogna prima avercelo, il talent), era il disprezzato prevosto a dirti che quella donna è troppo volubile per te (e sì, perché il prete, proprio in quanto ostinato nella castità, delle donne osservava l'anima mentre tu ti eri inconsciamente limitato al resto). Con rigorosi -anche quando minimi- studi ecclesiastici, trasmettevano qualcosa di vivo, capivano le cose della vita prima di te, ti veniva voglia di invidiarli, di seguirli, di prenderli sul serio. Fino a non troppo tempo fa, scienziato era necessariamente sinonimo di consacrato. Ti veniva inevitabile pensare: Cristo c'entra. Era così perché la fede e la vita erano tutt'uno, Cristo non era ridotto a materia da professori in vena di sciccherie.

Se per un attimo si mette da parte la pigrizia mentale del delegare ogni giudizio alle trasmissioni televisive, ci si accorge che i preti che spiccano, quelli che davvero ti vien voglia di seguirli, quelli che davvero ti dicono qualcosa, non sono quelli che Fanno Grandi Cose, non sono quelli che effettuano con professionalità tutte le Operazioni Prescritte dai Regolamenti, ma sono quegli “innanzitutto uomini” nel mondo reale. Sono quelli le cui “prediche” hanno a che fare tanto col Vangelo del giorno quanto con le questioni serie della vita, sono quelli le cui parole non ti suonano inutili e insipide nel momento in cui ti trovi nei guai, sono quegli “innanzitutto uomini” che nel vedere uno che pur di avvicinarsi al Sacramento sopporta venti minuti di pioggia, si sarebbero commossi.

lunedì 3 ottobre 2011

Una bidonata ricordata negli Atti

Il caso è descritto in At 15,36-40: Paolo dice a Barnaba di partire con lui, «Barnaba voleva prendere insieme anche Giovanni, detto Marco, ma Paolo riteneva che non si dovesse prendere uno che si era allontanato da loro nella Panfilia e non aveva voluto partecipare alla loro opera. Il dissenso fu tale che si separarono l'uno dall'altro; Barnaba, prendendo con sé Marco, s'imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì».

Paolo e Barnaba erano stati scelti dallo Spirito Santo («Riservate per me Barnaba e Saulo per l'opera alla quale li ho chiamati»: At 13,2). Paolo neanche comincia la sua prima missione, che a Perge di Panfilia per imprecisati motivi quel Giovanni detto Marco lo pianta in asso. I due “riservati” dallo Spirito finiranno dunque per avere un dissenso grave al punto di dividersi. Barnaba se ne partirà per conto suo, portandosi quel Marco sebbene certificato come capace di tirar bidonate.[1]

Se di fronte a tanto dissenso non ci vengono fornite ulteriori spiegazioni significa che il bidone era di quelli che non meritano nemmeno di essere ricordati: ossia dovuto alla debolezza umana di quel Giovanni detto Marco. Posso supporre che fosse il tipico indeciso, una di quelle persone volubili, capaci di cambiare drasticamente idee e progetti da un momento all'altro. Oppure che a Perge avesse trovato una donna (forse anche soltanto da “evangelizzare castamente”) e quindi all'improvviso considerasse conclusa la propria missione con Paolo. Oppure vedesse Paolo come troppo deciso e temerario[2] per cui già da tempo era a caccia di qualche alibi più o meno elegante per sganciarsi. Da quel punto in poi Barnaba e il suo prediletto scompaiono dalla narrazione degli Atti.

Fin dalle origini la Chiesa è martoriata da dolorose divisioni spesso dovute, ancor prima che alle umane debolezze, al paternalismo confuso per paternità. Da allora ad oggi, una percentuale non trascurabile di ecclesiastici assurge ad alte cariche[3] nonostante plateali e frequenti dimostrazioni d'inettitudine (mi scrivono che non si dovrebbe guardare il bicchiere mezzo vuoto: non dovremmo lamentarci di un vescovo asino ma riflettere sulla divina Grazia che ha concesso ad un asino di diventare vescovo. Ma è un po' curioso questo accanimento nel voler attribuire alla divina Grazia sviste ed errori della gerarchia ecclesiale).

Così come il volgo confonde la libertà con il diritto di sbagliare deliberatamente, così certo clero confonde il legittimo preferire con l'ostinato incapricciarsi. Anche i laici impegnati, clericalizzatisi, amano commettere questo stesso errore, contribuendo a propagare (magari contro le loro stesse intenzioni) dissensi e divisione all'interno della Chiesa. Un esercito di Giovanni detti Marco avanza di carriera ancor oggi, a dispetto delle bidonate che hanno dimostrato di saper tirare nei momenti importanti, mentre i loro protettori si trincerano dietro l'alibi dell'aver fatto tutto il “dovuto discernimento”. Ironia della sorte, è proprio a questi esperti di bidonate che ci si ritrova a dover obbedienza e fedeltà, è proprio ai balzani progetti di costoro che ci si ritrova a dover architettare un modo per insufflar vita, mentre affannati ricordiamo che globalmente la Chiesa è assistita dallo Spirito.


1) Dobbiamo necessariamente assumere che Giovanni detto Marco sia stato come minimo entusiasta di partire. Direi addirittura insistente: di fronte ai pericoli dell'andare in missione (cfr. 2Cor 11,23-28: battiture, naufragi, lapidazioni, freddo, briganti, fame...) Barnaba si sarebbe guardato bene dall'accollarsi una zavorra.

2) L'apostolo Paolo poteva permetterselo: era civis romanus, dotato della cittadinanza romana, protetto dalla legge. Infatti quando verrà condannato a morte, sarà per decapitazione: l'umiliante crocifissione, infatti, non era prevista per i cittadini romani.

3) Immagino l'espressione vanesia e soddisfatta - “Vedete? Vedete?” - mentre si rigira tra le mani il suo nuovo biglietto da visita in caratteri sontuosi: Giovanni (detto Marco), assistente all'evangelizzazione prescelto da Barnaba, riservato dallo Spirito.

lunedì 19 settembre 2011

Per chi raddrizza le banane

Il 20 settembre all’ONU si proporrà il riconoscimento della Palestina. Israele è sempre più isolato, mentre cresce quel fondamentalismo islamico, mascherato da “primavera araba”, a cui qualche sciocco, o ingenuo, ancora crede. Un riconoscimento di questo tipo sarebbe una vera e propria tragedia. Se accadrà, reagiremo.
“Reagiremo”. Perbacco, davvero da brividi: “reagiremo”. Con qualche pagina di blog e magari un articolo sul giornale: questo sì che si chiama reagire, ragazzi, mica pettinar bambole o raddrizzar banane, vedrete, l'ONU arretrerà con la coda tra le gambe e finalmente il cosiddetto “fondamentalismo islamico” (che subdolamente alligna in ogni musulmano del mondo anche se non lo sa), sebbene “mascherato”, avrà la sua sacrosanta dose di mazzate.

Il blog da cui ho tratto quella citazione nacque per incensare il foglio di un Ateo Devoto e per elogiare, con festoso autocompiacimento, gli articoli di un giornalista ciellino. Non fu proprio una brillante idea: poco tempo dopo il giornalista ciellino lasciò CL sbattendo la porta, mentre l'Ateo Devoto fino ad oggi non si è mai convertito - anzi, continua a considerare il cristianesimo uno strumento da utilizzare per colpire nemici politici. Il tragicomico è che certuni, scodinzolando a più non posso, a tutt'oggi pendono dalle labbra di sirene di quel genere: sono i cristianisti, che riducono il cristianesimo ad un generico “anticomunislam” e hanno per loro catechismo dogmatico il film Il mercante di pietre.[1]

A leggere certe robe ti prende un attimo di nostalgia. Nei bei tempi di una volta, i ciellini consideravano tutti la realtà secondo la totalità dei suoi fattori. Il buon Socci, dalle pagine del Sabato, alla caduta del muro di Berlino gridava “né comunisti, né americanisti”, ai tempi della guerra del Golfo urlava il suo sdegno contro l’aggressione americana all’Iraq. Era sempre andata così a tutti: il tipico ciellino era odiato perché non incasellabile in uno schema ideologico. Infatti prendevamo molotov dai comunisti e manganellate dai fascisti, eravamo diffidati dai politici, detestati dai vescovi, schifati dai borghesi, gambizzati dalle Brigate Rosse...

Succedeva perché prendevamo sul serio più don Giussani che i titoloni dei giornali. Sapevamo tutti che il cristianesimo non è una elegante insalata di belle idee[2] ma è anzitutto una Persona. Mettevamo tutto a confronto con l'esperienza, senza dividere per pigrizia il mondo in buoni e cattivi, senza faticare per allinearsi con la moda o contro-moda del momento. La politica per noi era il risultato di qualcosa di già vissuto, non era la premessa per definirsi cristiani. La fede era riconoscere una Presenza, non era il professare le idee politiche ed economiche che fanno guadagnare qualche prestigiosa etichetta come "anticomunislam". Oggi qualche ciellino (preciso meglio: sedicente ciellino) lo ha dimenticato, o peggio, trasformato in elegante gergo per riempire le conversazioni e sentirsi finalmente à la page, professando il mutevole dogma più in voga al momento.[3]

“Reagiremo”. Palestina uguale fondamentalismo. Riconoscimento uguale tragedia. Chi non è daccordo è ingenuo o sciocco. “Reagiremo”. Il tragicomico epilogo degli anticomunislam è il somigliare al nemico che dichiarano di avere: fondamentalisti (quanto a ideologia) e boriosi (parlano come la Pravda durante le purghe staliniane): “Reagiremo”.


1) Certi cattolici sembrano più credenti nell'americanismo che nei dogmi di fede: avviene perché Hollywood continuamente ci vende gli USA come baluardo anti-comunista e anti-islam.

2) La stupidità dei cristianisti sta nella bizzarra logica secondo cui per combattere un'ideologia occorre un'altra ideologia, diametralmente opposta (almeno in senso televisivo) alla precedente.

3) I cristianisti sono la versione neocon dei cattocomunisti.

mercoledì 14 settembre 2011

Le sole due cose che possono capire gli uomini dell'Occidente

Caro Jeff, non vi sono che due cose che la maggior parte degli uomini del West può capire...

...un calibro 38 pronto a sparare fuoco e un bicchiere di whisky in attesa d'essere vuotato.
(citato da: Tex, da una striscia del 1948)

giovedì 8 settembre 2011

Frattaglie / 8

Seguono altre frattaglie e pensierini sparsi.

Chi non è “cattolico praticante” o è cattolico sedicente oppure è cattolico recitante. Mi dicono però che occorre ulteriormente distinguere tra osservante e praticante, giacché quest'ultimo si distingue dal recitante spesso solo per il maggior tempo materialmente speso tra le quattro mura in parrocchia.

Una delle rinomate specialità italiote è prendersi un impegno e poi dar buca all'ultimo momento. Specialmente quando si ha paura che l'impegno in questione possa far rischiare, anche alla lontana, un leggero cambiamento di mentalità.[1] È sorprendente come le “proprie opinioni”, acquisite subendo passivamente il bombardamento dei notiziari, diventino il più intoccabile degli idoli, ancorché mutevole e aleatorio.

Dopo più di cinquant'anni il nonnetto torna al paesetto natìo e tenta disperatamente di scorgere i posti dove era vissuto, nascosti da quella selva di luci, cemento e tubi di scappamento. Perfino la piazza ha cambiato nome. Ride della grossa, per nascondere la tristezza e soprattutto la delusione.

Agita una pistola, l'eroe del cinema: la locandina lo mostra fiero di sé e sazio di tutto. Ha in mano la sacra pistola, il simbolo tascabile del potere di vita e di morte su chiunque gli capiti davanti. Gli basta sfiorare il grilletto per togliere la vita a qualcuno (o compromettergliela definitivamente): la pistola, scettro di un potere “divino”, simbolo di giudizio di vita e di morte. Sazio e orgoglioso di sé, l'eroe del cinema è ovviamente accompagnato dalla solita bellona tutta curve. E noi si paga il biglietto per poter conoscerne le gesta.


1) Succede puntualmente ogni anno quando inviti qualcuno al Meeting. Oppure alla scuola di comunità. O persino alla vacanzina, oppure agli esercizi. Hanno paura di vedere qualcosa che provochi in loro un ricredersi. Hanno paura, cioè, di non poter più professare apertamente certi pregiudizi.

giovedì 1 settembre 2011

Retorica risorgimentale

Dobbiamo fronteggiare un'invasione di chissà cosa, sicuramente alieni. Dobbiamo colpirli con tutto quello che abbiamo e dobbiamo farlo pesantemente...

Ritirarsi? Mai!...

Cadono come birilli!...

Marines! Diamogli del filo da torcere! Dobbiamo fargli vedere chi ha i coglioni!...

Ce l'abbiamo fatta! A-ha-ha-ha! Abbiamo vinto! Sì!...

Ehi! Eccoli! Ci avete salvato la vita, ragazzi!
La martellante propaganda bellica americana dà anche al più appassionato tifoso l'impressione che il loro complesso industriale-militare abbia continuamente bisogno di giustificarsi (già durante il film mi chiedevo contro chi sarà la prossima guerra vera).

mercoledì 31 agosto 2011

Non sono i macchinari a condurre la guerra

Non varrebbe la pena perdere un'ora e mezza a vedere il film Fast'n'furious 5 se non per una scena che vi è stata inserita di forza e che è decisamente estranea alla noiosa banalità del film.

La scena è quella dell'aggressione agli Humvee, i mezzi militari americani usati dal pelato cattivello che dà la caccia al pelato buono. Nella scena in questione gli invincibili cattivelli vengono annientati in pochi istanti dagli indigeni mentre il pelato caposquadra assiste impotente e disperato al massacro dei suoi uomini.

È esattamente quel che è avvenuto più e più volte in Iraq e Afghanistan e altrove: quella scena rappresenta in modo realistico la tipica bruciante umiliazione della superpotenza più famosa del pianeta con l'esercito più equipaggiato ed avanzato. La tecnologia non abolisce il pericolo, e le guerre non le conducono i macchinari ma gli uomini.

martedì 5 luglio 2011

Spigolature commerciali

Realtà virtuale. I fieri alfieri del principio di sussidiarietà finiscono spesso per confondere il bene comune con la floridità in Borsa di qualche famoso marchio. Dopo aver ridotto il cristianesimo ad anticomunismo e il comunismo ad antiliberismo, continuano ignari a discettare finemente di posti di lavoro, ricerca scientifica e prospettive per i giovani, immaginando così di essere riconoscibili come cattolici.

Felicità vendesi. Nella confezione di merendine trovo in omaggio un lucido pupazzetto a forma di merendina, con occhioni, ciuffettino e scarponi. Dal pieghevole illustrato scopro quale è la sua “frase ricorrente”, il suo “gesto frequente”, il suo “colore preferito” e altre amenità. Per venderti un sorriso (giacché la merendina può saziare lo stomaco ma non il cuore) il fabbricante di merendine deve “umanizzarlo”.

Core Business. Tagli nelle linee Regionali, più investimenti nell'Alta Velocità. Coloro che non hanno ben chiaro il concetto di bene comune non si accorgono che trasformare servizi in prodotti dà come risultato solo disservizi, poiché dimenticano che la morale di un'azienda è massimizzare i profitti.[1]

Vendonsi tenebre. La pubblicità di un luogo turistico annuncia la sua major feature: lì si sta svegli praticamente tutta la notte. Come se solo la notte fosse felicità e vita. Avrei tanto voluto coprire la foto raffigurata con la foto di un'adorazione eucaristica notturna: l'effetto sarebbe stato devastante.


1) Sicuramente qualche stolto non resisterà a guardare il dito piuttosto che la luna che il dito indicava. Non intendo parlare di problemi ferroviari (c'è chi lo ha già fatto meglio di me) ma dell'idea di fondo che “privatizzare” significa magicamente e inevitabilmente “migliorare”.

giovedì 30 giugno 2011

Fino a ieri era vietato perfino respirare

A margine del sobrio commento sul nuovo vescovo di Milano, un poveretto (ormai famoso) così concludeva:
Nota Bene. ATTENZIONE
1. Fra poco la Curia sarà invasa dalle cavallette cielline.
2. Si deve vigilare sui beni immobili della diocesi e delle parrocchie: c’è il rischio che siano preda dei tentacoli della piovra Cdo.
3. Ora i preti ciellini diocesani potranno respirare, e godersi la possibilità di qualche privilegio e di posti speciali di responsabilità pastorali.
4. Attenzione ai seminari: potranno accedervi vocazioni portate all’integralismo.



domenica 26 giugno 2011

Misteri della fede

Qualcuno prima o poi dovrebbe spiegarmi perché tutti sanno dire hotel Excelsior ma pochi sanno pronunciare gloria in excelsis Deo.[1]


1) Se la liturgia richiedesse “hotel in Excelsis” nessuno pronuncerebbe più eccèlsis.

lunedì 20 giugno 2011

Un simbolo che spiega tutto

Un ottimo simbolo per descrivere questa società: il gesto, frequentemente avvertito come necessario, di portare una mano dietro la schiena per tirarsi su i jeans.

domenica 19 giugno 2011

Fatalismo

“Non cade foglia che Dio non voglia”: giusto, poiché se Dio non vuole allora la foglia non può cadere. Ma attraverso sfumature della lingua italiana spesso quel doppio “non” viene semplificato in un fatalismo: se una foglia cade, allora sarebbe colpa di Dio che l'ha voluto e preteso: come se Dio desiderasse il male, come se fosse talmente debole da non poter fare a meno di permetterlo, come se Dio fosse vendicativo contro gli squallidi peccatori e addirittura miope (visto che i peccatori più incalliti non sembrano mai essere adeguatamente puniti dalla sorte), come se ogni male che vediamo si potesse incolpare l'entità generica “Dio” di averlo compiuto (volendolo, oppure distraendosi e lasciandolo accadere).

Quest'idea balzana serpeggia tra tanti fedeli sufficientemente ignoranti dell'insegnamento della Chiesa. Se l'uomo è stato creato talmente libero da poter scegliere perfino di compiere il male a danno di innocenti, allora il dire “Dio permette” è una scappatoia per chi ha fretta di chiudere una discussione. Le malvagità degli uomini, infatti, dipendono dalla volontà... degli uomini. Dire che “non cade foglia” è un modo meschino di accusare Dio (il generico “Dio”: più comodo accusare il generico “Dio” che Nostro Signore in persona) di esser colpevole delle cattiverie umane e della natura ferita dal peccato (prima del peccato originale la natura non si ribellava all'uomo).

Il fatalismo è lo stratagemma di quei deboli che hanno la sventura di essere anche stupidi.

sabato 18 giugno 2011

Appetito

- Il nostro più caro amico: esiliato. Loki sul trono. Asgard sul principio di una guerra. Eppure sei in stato in grado di consumare quattro cinghiali, sei fagiani, un quarto di bue e due botti di birra... Vergognati! Non ti importa...?
- Non equivocare il mio appetito per apatia!
- Smettetela! Tutti e due. Basta! Sappiamo che cosa dobbiamo fare.
- Dobbiamo andare. Dobbiamo trovare Thor.

giovedì 2 giugno 2011

Hanno beccato il prete pedofilo

Quando a dettarti l'agenda è qualcuno che ti è ostile, vuol dire che ti ha già sconfitto per estenuazione e senza neppure sporcarsi le mani.

E al cattolico di oggi l'agenda non gliela dettano il Magistero e la Tradizione, ma i titoloni sbattuti in prima pagina.

Oh, certo, ecco tantissime sacrosante prese di posizione, giustissime condanne, però, dai, noiose, prevedibili, ovvie, automatiche: in una parola, inutili.

Peggio: dannose! Poiché infatti tanta cagnara conferma e consolida la supremazia di chi detta l'agenda.

Viene costruito attorno a noi un mondo virtuale a suon di “notizie” che possono talvolta perfino rispecchiare la verità dei fatti, poiché è il modo in cui ci vengono somministrate a renderci tutti dei cani di Pavlov.

Quanto funzioni bene quel sistema, è dimostrato da quel sottile fastidio con cui leggi questa pagina: ma come, non si tratta di una notizia vecchia di diversi giorni?

venerdì 27 maggio 2011

Una dinamica dell'odio alla Chiesa

Andavamo sempre a pranzo nello stesso locale. I primi giorni ci trattavano come clienti di riguardo: razioni abbondanti, abbondanti anche gli extra, servizio veloce e preciso. Poi qualcosa ha cominciato ad incrinarsi. Tizio chiedeva più condimento. Caio cambiava idea settanta volte al minuto. Sempronio trovava sempre la pietanza troppo cotta o troppo poco cotta, troppo salata o troppo poco salata.

Ora, il principio è che loro lì stanno facendo il loro lavoro. Può esserci qualche sbavatura perché a chiunque può capitare di sbagliarsi. Può esserci qualche dimenticanza, perché a chiunque può capitare di avere la testa altrove a causa di problemi familiari, di salute sacrificata, di ore di sonno ancora da recuperare. Per questo, se non ho evidenti indizi di trascuratezza deliberata, non mi lamento mai. L'operaio è degno della sua mercede e, così come chiedo che sia perdonata qualche non infrequente imperfezione nel mio lavoro, così sono disposto a perdonarne a chi fa un mestiere meno invidiabile del mio.

I tre sopracitati figuri, invece, non erano altrettanto disposti. Per di più la loro lamentela era pressoché sempre fuori luogo. Si lamentano del troppo sale (“che fa male alla pressione”: ma da quando in qua avete mai cominciato a preoccuparvi della “pressione”?), cambiano idea di continuo (segno di un'insofferenza alle cose della vita, o quantomeno di un'insicurezza feroce e ben coltivata)... insomma manifestavano un disagio scaricandolo su ciò che trovano davanti. Nel locale in cui si va a pranzo, naturalmente, il bersaglio non poteva che essere ciò che si mangia. Cioè il lavoro degli “operai” da noi pagati per pranzare.

La reazione degli operai non si è fatta attendere a lungo. Le porzioni non sono più state abbondanti. Il condimento extra si è rarefatto, e va chiesto esplicitamente, e bisogna aspettarlo, e bisogna contentarsene perché “non ce n'è più”. È stato un modo gentile per farci capire che i clienti lamentosi sono tollerati fino ad un certo punto, punto che il nostro gruppetto ha abbondantemente sorpassato: certi clienti è meglio perderli che trovarli.

Tizio, Caio e Sempronio cominciano finemente a discettare della qualità del servizio, senza minimamente interrogarsi sulle proprie evidenti e documentate paturnie. Quando le faccio presenti, addirittura hanno tanta faccia di bronzo da obiettare: “dunque quelli del locale vogliono vendicarsi di noi?”

Agli “operai” naturalmente non è più gradita nemmeno la mia, di faccia. È andata a finire che il sottoscritto, sebbene innocente, per associazione di idee è considerato un cliente della categoria “meglio-perderlo-che-trovarlo”.

In fin dei conti non posso avere da ridire sul loro comportamento. La mia pazienza ha un limite, e certamente avrà un limite anche la loro, limite anche più basso del mio perché ogni giorno avranno a che fare con clienti isterici, clienti furbetti, clienti incontentabili... cioè con persone che vanno lì per “comprare” un servizio e finiscono per approfittarne per scaricare la tensione dei loro nervi sui malcapitati.

Anche se andassi da solo o in compagnia di “facce” diverse dai tre sopra citati, per molto tempo troverò quegli “operai” ancora consolidati nell'idea che io sono uno della “banda dei seccatori numero 3758”. Comprensibile. Riguadagnare la fiducia perduta è un'impresa titanica, non banalizzabile in qualche gesto di cortesia o mance.

Questa che ho descritto è la stessa dinamica per cui certa gente ha un odio viscerale contro la Chiesa. A causa di qualche religioso imbecille, si finisce per odiare tutta la Chiesa. La suora che in quei momenti era stata intrattabile, il prete che in certi momenti era parso avido o insolente, finiscono per diventare come “esempio fondante” per coloro che già istigati dalla società si autoeleggono moralizzatori duri e puri e si chiedono: “ma come, loro non dovrebbero dare l'esempio?

Dirò di più: tutti questi religiosi che non hanno mai veramente lavorato in vita loro subiscono per tutta la vita la tentazione di sottovalutare il lavoro di tali “operai”. Esattamente come i tizio-caio-sempronio sopra descritti. Basta che per un certo periodo un prete faccia il pirla (poco importa per quali motivi), che i fedeli finiranno per regolarsi di conseguenza, anche quelli che ostinatamente ricordano che quelle preziose mani sacerdotali consacrano e assolvono.

Banali meccanismi psicologici (come il lamentarsi del poco condimento quando in realtà il disagio riguardava la mancata promozione o le ore di sonno perdute e non ancora recuperate) finiscono per far sembrare “marcio” tutto il clero e tutti i consacrati. Non tutti gli “operai” hanno il tempo e la pazienza per capire che le ultime ottomila lamentele del tal prete o della tal suora non hanno nulla a che fare con il servizio effettivamente reso dall'operaio. Non tutti i preti e suore, sebbene dotatissimi di orari di meditazione e letture bibliche, riescono a ricordare che l'operaio è “degno della sua mercede” (e che pretendere di più, a parità di mercede, è in fin dei conti una ingiustizia non trascurabile).

Finisce così che l'intera categoria dei preti viene detestata per i disagi temporanei (non necessariamente malizia e cattiveria: basta molto meno) di uno che era troppo stanco per ricordare che i santi non si lamentavano mai. Il comando forte e chiaro della Chiesa, ridotto a pio suggerimento per anime sazie e riposate, finisce per apparire come materia da prediche della domenica piuttosto che come urgenza di giustizia e carità. E mentre per il gruppetto dell'ora di pranzo erano bastati tre quarti di lamentosi, per il clero basta molto meno per aiutare il Principe di questo mondo a diffondere e sostenere la sottile tentazione di pensar male di tutti i consacrati.

C'è una casa di formazione (di proposito non chiamata “seminario”) dove prima di accettare aspiranti preti ci si assicura che lavorino, che abbiano fatto seria esperienza di cosa significa lavorare, avere orari, responsabilità, provar fatica, avere ore di sonno arretrate, tempo libero ridotto, e a fine giornata dover anche subire durante la Messa la noiosa predica buonista del “dobbiamo essere più buoni, più disponibili, più generosi”. Perciò hanno la mia massima stima: accederanno al sacerdozio avendo già gli anticorpi giusti (non solo contro quel tipo di prediche). Come me, senza troppa fatica, eviteranno il 99% delle tentazioni di lamentarsi degli “operai” solo per sfogare un disagio che con gli “operai” non c'entra per niente. E si sentiranno dire (come già ripetutamente avvenuto a qualcuno di quegli aspiranti), “solo tu mi capisci, solo tu sai cosa significa lavorare e tirare avanti”.

venerdì 20 maggio 2011

Convertirsi dall'islam

Un commovente resoconto di cosa significhi conversione: «Chi siete?»
«Guardando le loro facce, per la prima volta nella mia vita, ho sofferto di non poter ricevere la Comunione. Ho capito che l’unico che può rendere la mia vita felice è Cristo. Desideravo essere parte di Lui e che Lui fosse parte di me».

giovedì 19 maggio 2011

Deviazioni standard: concettualismo e concretismo

Contro i concettualisti degradati:
«Uno spettro si aggira per il continente post-moderno, nella Wasteland inaridita dell’intelletto; uno spettro mimetico e multiforme, e questo spettro è il concettualismo degradato di massa che trasforma ogni cosa sensibile in un’astratta formalizzazione intellettuale, e credendo di ‘aggiornarsi’ si aliena all’esperienza»[1]
Contro i concretisti:
«Come potrebbe amare l'uomo di benevolenza se non avesse la conoscenza astratta della verità? Permettetemi un po' di prendere le difese dell'astrazione: al giorno di oggi siamo tanto concretisti, che guai a fare discorsi astratti! Molto spesso mi è capitato di essere confrontato con questo rimprovero, e cioè che il discorso risulta essere troppo astratto. Io, per la verità, l'ho ritenuto sempre grande pregio, quello di un discorso, di essere astratto, dato che -appunto!- san Tommaso sostiene che l'astrazione è il mezzo per conoscere, il medium cognitionis, il mezzo conoscitivo. Non c'è altro modo per conoscere che astrarre»[2]



1) R. La Capria, La mosca nella bottiglia, 1996.

2) Padre Tomas Tyn, conferenza sulla dottrina sociale della Chiesa La società in genere, 1986?

sabato 14 maggio 2011

La morale moderna, fondata sull'ipocrisia

Oggi si assume come “morale” ciò che si può fare senza che trovino da ridire le persone che identifichiamo come utili.

Corollario 1: “se nessuno mi vede, tutto è lecito”.

Corollario 2: “la morale varia secondo come percepisco le circostanze”.

mercoledì 11 maggio 2011

Anche i ciellini sbagliano

Mi è arrivata l'email-promemoria per il versamento della quota del Fondo Comune alla Fraternità di CL (l'unica email di "versamenti" gradita), in italiano, inglese e spagnolo. Nella parte in inglese ci sono due correzioni fraterne tra ciellini e ciellini, di cui io e qualche altra decina di migliaia di aderenti alla Fraternità di Comunione e Liberazione veniamo fatti partecipi:



Dunque Toglierei ‘of’ e Meglio ‘Warm regards’ diventano da oggi il tormentone dell'estate fino al prossimo Meeting di Rimini!

lunedì 2 maggio 2011

Non do soldi alla parrocchia

Non sono uno zio Paperone: in vita mia non ho mai sguazzato tra le monete d'oro. È da sempre che devo stare attento anche all'ultimo centesimo, per cui i termini “donare”, “contribuire”, “regalare”, alle mie orecchie suonano in modo alquanto diverso rispetto a chi può liberarsi di qualche euro senza avvertirne seriamente la mancanza. Non avendo molto “superfluo” di cui liberarmi, potrei essere considerato “povero”, se questo termine oggi non fosse così melensamente abusato.

Non ricordo più quando è stata l'ultima volta che ho lasciato qualche moneta durante l'offertorio della messa parrocchiale. Mi ripugna l'idea di contribuire alle brutture parrocchiali, per giunta proprio qualche istante dopo il celebrante ha trovato modo di terminare la sua noiosa omelia sui luoghi comuni dettati dal telegiornale della sera prima. Sogno (posso solo sognarlo) che un giorno tutti diventino come me, e diano le proprie offerte solo laddove il crocifisso sembra davvero un crocifisso, laddove i paramenti non sembrino spezzoni di tendaggio dozzinale, laddove non si sprechino centinaia (o migliaia) di euro per amplificare certe patetiche esibizioni canore... sogno cioè di vedere che le offerte dei fedeli diventino proporzionali al modo in cui viene curata la chiesa[1], proporzionali all'ortodossia[2].

In parole povere, non riesco a donare “con gioia” quando vedo sprechi.

Al contrario, altrove “dono con gioia”. Come qualche giorno fa. Metto volentieri mano al pur magro portafogli, e poco dopo mi trovo spesso a chiedermi se e come potevo dare di più. Molto di questo “altrove” è diretto alle opere del movimento, perché ho ben presenti certi volti e certe opere, ho visto con i miei occhi quella “ingenua baldanza” quali frutti ha già portato. Aver già visto come vengono ben spesi i miei due spiccioli liberamente donati loro, mi induce a donare ancora.


1) Sul blog Fides et forma c'è una gran quantità di testimonianze sulle brutture architettoniche spacciate per “nuove parrocchie”, costruite con i soldi raccolti con l'«otto per mille». Tra i peggiori esempi di spreco delle offerte dirette dei fedeli spicca purtroppo l'orrore eretto a San Giovanni Rotondo.

2) Il grande Rino Cammilleri, un po' scherzando e un po' no, suggeriva l'idea di “tassare” l'eterodossia, ossia colpire alla scarsella i preti che liberamente scegliessero di deviare dal tradizionale insegnamento della Chiesa.

martedì 26 aprile 2011

Imborghesirsi senza accorgersene

Mai come quest'anno ho urgente bisogno degli Esercizi della Fraternità. Un vecchio proverbio della nonna suonava più o meno così: a colui che è sazio è impossibile credere a colui che è a digiuno. Traslato nella vita di tutti i giorni, diventa: a colui che si è imborghesito le questioni fondamentali della vita si riducono ad un elegante, disarticolato ed inconcludente disquisire.

È facile filosofeggiare a pancia piena. Un po' meno facile quando ci si sveglia al mattino con una spina nel fianco, tale da far imprecare ancor prima di pregare. Vedi un mondo che crolla, vedi le persone che più amavi lanciarsi in colossali cazzate, vedi infaticabilmente sputare su ciò che di meglio sei riuscito a donare, e cominci a provare quella curiosa sensazione di indifferenza di fronte a tante parole “religiose” (proprio quelle che al “sazio” suggerivano invece un'espressione da pensoso gourmet).

La fede viene forgiata dalle difficoltà e dai dolori. Spazzano via le incrostazioni “borghesotte” che, come la polvere sui mobili, si accumulano senza che noi ce ne si accorga. Ma come tutte le medicine, oltre un certo dosaggio la cura diventa veleno. Persone a me care, nel corso degli anni, hanno perso la fede per dosi di dolore troppo elevate per il loro spirito. Pur riconoscendo assolutamente vera la possibilità di salvezza offerta a tutti in modo misterioso, è quantomeno drammatico vedervi concretamente sputare su.

La dose di dolori a me riservata mi ha alquanto snellito il parlare (anche sul blog). Di fronte ad un dolore, il desiderio più assoluto è che il dolore scompaia. Spesso (troppo spesso) i discorsi sul significato del dolore non lo attenuano ma addirittura lo peggiorano. Il disorientato vuole la Via, non il discorso sul camminare insieme. Il confuso vuole la Verità, non le prediche. L'addolorato vuole la Vita, non disquisizioni sul vivere.

Ciò che intendo estrarre dagli Esercizi del 29-30 aprile a Rimini non è un discorso. È piuttosto un mettere alla prova il carisma del movimento. È un verificarne l'efficacia concreta (che perciò non può consistere delle sole parole). È una pretesa, una legittima pretesa: vado a Rimini perché nella mia vita di fede è stato il movimento di CL a svegliarmi e a tenermi in piedi, ma vado lì pretendendo sale che sappia di sale, perché il sale senza sapore non mi serve ad altro che a calpestarlo.

Fino ad oggi il movimento mi è sempre stato utile strumento per la vita e la fede. Stavolta, a causa del “mondo che crolla” di cui sopra, ho bisogno di una fiammata più importante, di una cura più urgente, di una risposta più concreta di fronte alle catastrofi che mi vedo attorno.

venerdì 15 aprile 2011

Il nemico è dentro

In tempi normali la fede è una cosa seria, eccezionalmente seria. Qualcosa per uomini duri, pronti a tutto (mentre i deboli osservano con sconcerto, ammirazione, invidia). Ma questi non sono tempi normali. Questi sono tempi in cui il panorama ecclesiale è misero, è molle, è debole e spesso perfino orgoglioso di esserlo. La crisi della fede è documentata, tristemente, da quelle canzoncine parrocchiali costruite su motivetti del tipo “Cristo Gesù, ti dà di più”, cantillati come il jingle pubblicitario del minimarket rionale.

È ciò che pensavo ascoltando Enemy Within, di Malmsteen[1]. Tentando di essere maestosamente medievale (in particolare nell'incipit e alla fine), finisce (involontariamente?)[2] per essere una descrizione dei tempi moderni e della situazione della Chiesa. È buffo quando un artista vorrebbe dipingere il diavolo come simpatico, o la morte come dolce e deliziosa, o la realtà come un'infinita ed invincibile serie di mali... e finisce invece, involontariamente,[3] per fare apologia della Chiesa cattolica.

Vale la pena ascoltare attentamente il pezzo, lasciando emergere quei lampi di significato da parole apparentemente messe lì pro forma.

“Divide et impera: par sempre funzionare”. Il potere di questo mondo non è potere, ma è solo sopraffazione: sembra funzionare, ma è destinato a durar poco (è già tanto che alcune civiltà abbiano potuto superare il millennio di vita).

“Hanno tutti cominciato ad adorare la bestia”. Più precisamente, come diceva il cardinal Biffi, i non credenti non sono quelli che non credono, ma quelli che credono a tutto: sono creduloni. Adorerebbero qualsiasi cosa, perfino la bestia, pur di mostrarsi liberi di credere a quel che gli piace. Il vero Potere, infatti, non dipende dalle mani dei mortali, ma agisce nelle teste dei mortali: il vero Potere, prima che omicida, è mentitore, inganna, illude.[4]

“Dovremmo capire chi è il vero nemico (mentre i lupi sono già alla porta di casa)”. Le angherie di questo mondo, le ingiustizie di questo mondo, le malvagità di questo mondo, non sono il vero nemico. “Il nemico ce l'abbiamo dentro”. Ma siamo dotati di volontà, di capacità di scegliere, di possibilità (addirittura!) di scegliere il male pur vedendo l'evidenza del bene. La nostra volontà è perciò marcia. Il nemico ce l'abbiamo dentro, e si chiama peccato originale: inclinazione al male, che inquina la capacità di fare il bene. E le tentazioni, ciò che ci “ipnotizza” e ci suggerisce l'errore,[5] vengono da “quelle perfide menti”, quelle intelligenze compiute ma ribelli, ossia il demonio. Se “il regno ha perso la sua corona”, è perché “siamo stati ingannati”: il mondo scristianizzato insegue ogni immagine, ogni inganno, non sa più cos'è la morale, non sa più appassionarsi alla vera giustizia.[6]

“Questa battaglia non può essere persa”. È irragionevole arrendersi solo perché ci si ritrova deboli: il peccato originale non è l'ultima parola. L'ultima parola è la possibilità della redenzione: varrebbe la pena combattere “il nemico dentro” anche se quella possibilità fosse solo teorica, perché tra due teorie (la debolezza e la redenzione) è da autolesionisti buttarsi su quella che promette il peggio. Specialmente di fronte all'evidenza di altri che lo hanno fatto, e fino a quali strabilianti risultati: i santi.

“Il nemico è dentro”. Fuori siamo circondati da lupi, ma possiamo scamparla solo combattendo il nemico “dentro”, cioè l'inclinazione al male. Non è una cosa per coloro che sono orgogliosi della propria debolezza. Ci vogliono secco fegato, cuoia dure e dura fronte.

La fede è una cosa per uomini forti, duri, temprati. Altro che le canzonette da minimarket.


1) Dall'album Relentless (2010). Yngwie Malmsteen è definito “il Paganini dell'heavy metal”: un po' mi dispiace che la collana Spirto Gentil non ne abbia pubblicato un'antologia.

2) Tempo addietro commentavo qualche altro “involontario” esempio: Here come the tears dei Judas Priest, e Marian dei Sisters of Mercy.

3) Le parole “enemy within” si potrebbero intendere anche come “il nemico [è entrato] dentro [i nostri fortilizi]”. È tipico della musica contemporanea giocare su piccole ambiguità verbali per suggerire un qualche alone di misterioso e di seducente (ossia: ognuno capisca quel che gli pare). Il testo della canzone, però, sembra pendere verso l'interpretazione che ho presentato.

4) “A che serve guadagnare il mondo intero se poi si perde la propria anima?” è un monito preoccupante anche per chi non crede. Lasciò sbigottiti la notizia di un ultranovantenne suicida: ci chiedevamo perché a quell'età abbia voluto togliersi la vita. Ce lo chiediamo perché nel fondo del nostro cuore c'è un insopprimibile desiderio di vivere sempre. A che serve guadagnare il potere sul mondo intero, se ci deve costare quel “sempre”? In tanti muoiono mentre stanno ancora azzittendo questa semplice domanda.

5) Il termine “errore” scatena la furia dei permalosi. Perciò potremmo precisare: “preferire il bene minore al bene maggiore”.

6) Alla beffa si aggiunge il danno: di fronte alle catastrofi sociale, economica, politica, artistica... i nostri soloni non sanno parlar d'altro che di “matrimonio” gay e di “bunga bunga”.

giovedì 7 aprile 2011

Ancora sulle Missionarie di San Carlo Borromeo

«Il miracolo dei miracoli, più di tutti i miracoli di Lourdes, più di tutti i miracoli di qualsiasi santuario del mondo, il miracolo dei miracoli, vale a dire il fenomeno che inesorabilmente ti obbliga a pensare a Gesù, è una bella ragazza di vent'anni che abbraccia la verginità».

(don Luigi Giussani, “Il tempo e il tempio”, BUR Rizzoli, pag. 74).

PDF: Missionarie di san Carlo Borromeo
Ultimissime: sono ora in diciotto...

venerdì 1 aprile 2011

Vocabolario kelebekkiano

Accenni. E’ un po’ come se uno storico vedesse in ciò che noi chiamiamo normalmente la Prima guerra mondiale una nota a piè di pagina in un testo sulla lotta di liberazione dei serbo-bosniaci contro l’impero austroungarico.

Bizzarria. La stranezza che negano è sempre quella degli altri: nessuno si sorprende del fatto che il comunismo, impiantato tra gli esotici bolognesi, abbia dato frutti assai bizzarri rispetto al modello russo.

Dovere. La guerra diventa talmente un dovere anche per la sinistra, che nel 2006 un partito che si chiama comunista espelle i propri deputati che non la apprezzano.

Guerra. Siamo in guerra, anche se la tecnologia moderna rende le guerre un po’ come i safari in Kenya, dove i cacciatori rischiano al massimo di slogarsi un dito a forza di tirare il grilletto.

Mormoni. Quasi due secoli fa, un signore americano si accorse che vari patriarchi biblici erano stati poligami; e così decise di fare della poligamia uno dei segni distintivi della nuova religione che stava inventando, quella dei Mormoni. Perché scelse l’esempio dei patriarchi, anziché – ad esempio – quello di Gesù, che a quanto pare non aveva né moglie né figli? E’ quantomeno legittimo sospettare che il signore in questione volesse avere molte mogli, e andò quindi in cerca dell’inattaccabile precedente teologico che ne giustificasse il comportamento.

Nuovo mondo. Poi siamo entrati nel nuovo mondo, in cui il nemico poteva avere migliaia di soldatini e fucili, ma non era in grado di abbattere un solo aereo. E quindi era a tutti gli effetti disarmato. Di fronte a un missile Tomahawk, non c’è differenza tra un militare di leva con un mitra e una vecchietta con una padella di ferro.

Rom. Per noi, che non soffriamo di political correctness, i problemi non si risolvono cambiando i nomi. In italiano, la parola Rom, che ha sostituito – correttamente – la parola zingaro, si porta ormai addosso tutta la carica negativa del termine che voleva rimpiazzare. Anzi, zingaro almeno aveva una nota di allegria e di libertà che il nuovo termine non possiede affatto; mentre, per una casuale assonanza, Rom ha contaminato anche romeno.

Shebab. Normale parola araba, che indica “giovani”, come in “folla di giovani chiede autografi a Maria De Filippi“.

Sinistra (gente di). Nella maggior parte dei casi, però, la gente di sinistra si deve affidare ai media per capire a proposito di cosa si devono indignare, e chi devono sostenere; e siccome sono volenterosi e non si tirano indietro, devono indignarsi o esaltarsi appena sentono la notizia. Ora, i media hanno imparato ormai da anni come presentare le notizie nei termini vittimologici che la sinistra capisce, con le sue categorie elementari – “le donne, i bambini, i lavoratori, i diversi” contro i “dittatori, i razzisti, i fascisti” – applicabili più o meno a caso a qualunque realtà dalla Patagonia al Laos.

Traduttori. Cito sempre i nomi di quei traduttori che sono così bravi, da farti dimenticare che esistono.


mercoledì 16 marzo 2011

«Non era un film»

A-Long torna a casa, cambiato, e dice tutto a sua moglie. E le dice anche: “voglio che i miei bambini crescano così”. Succede a Taiwan, oggi, proprio come descritto nel Vangelo: “si convertì lui e pure tutta la sua famiglia”.

Terrore ambrosiano: pericolo ciellino!

Dalla rassegna stampa:

“L’idea di avere un arcivescovo di matrice ciellina fa però ribollire gran parte del clero di Milano” (A. M. Valli).

“La sua esperienza vicina a CL - si osserva - potrebbe non favorirlo per la nomina a Milano, visto lo strapotere del movimento nel capoluogo lombardo” (C. Marroni).

“E molti, nel fare appello allo Spirito Santo, sottovoce chiedono che non arrivi un cardinale ciellino” (G. Chiellino)

Che spasso.

martedì 15 marzo 2011

Le parole per dirlo

«Se esistono le parole per dirlo, è possibile» (citazione da un libro di Veronesi).

Mentre gli ecclesiastici si affannano inutilmente a dire che la Scienza deve rispettare la legge naturale (quando non la confusa «etica»), la Scienza continua a funzionare col principio del “si può, dunque si deve”. Basta che ci sia una richiesta (cioè i desiderata di Usura, Lussuria e Potere) perché la Scienza si dia da fare. Basta che esistano “parole per dirlo”.

Eppure, più avanza la Scienza e più è evidente che quelle parole esprimono solo un sogno che perennemente rinvia ad un lontano radioso futuro. Con tanta Scienza, le carrozzelle continuano ad essere necessarie. Con tanta Scienza, il raffreddore continua ad esistere. Con tanta Scienza, il mondo è ancora diviso tra ricchi (pochi) e poveri (troppi), nel mondo si continua a morire per fame, per malattie, per lavoro, per terremoti, per alcool...

Le parole per condannare esistono. Vengono anche ampiamente utilizzate. Ma non servono a niente. La Scienza investe tantissimo nella cosmesi, mentre una confezione di Rebif 44 costa due mesi di stipendio. Il paradosso di questo ventunesimo secolo: non è la Religione ad essere impotente e traditrice, ma la Scienza.

martedì 8 marzo 2011

Desideri "ricordati"

A volte rivedo oggetti o disegni che mi ricordano qualcosa a cui da bambino ero affezionato. Qualcosa che oggi ritengo insignificante, ma che mi dà per un attimo una fitta al cuore perché rivivo ciò che provavo nel desiderarla. Era come se all'epoca dicessi a me stesso: come sarei felice se possedessi quel giocattolo! Senza sapere quanto avrei considerato insignificante e superfluo, a distanza di non troppi anni, ciò che desideravo.

Quanto più passano gli anni, tanto più affiorano i ricordi dei desideri realizzati e non realizzati. In Paradiso deve necessariamente esser tenuto in conto tutto quel piccolo grande universo di desideri “ricordati” che ognuno di noi vede comporsi come un mosaico man mano che gli anni passano. “Aver la vita dietro, l'eternità davanti”: la vita non è stata vuota (nemmeno nei momenti in cui crediamo che lo sia), non è stata senza senso: sono “giorni nati e morti” ma con un significato impossibile da spazzar via, che riconosciamo come preziosissimo non appena un evento casuale ce ne ricorda anche la più vaga traccia.

Tutto ciò che abbiamo vissuto, anche i momenti più sofferti e difficili, non può svanire nel niente “come lacrime nella pioggia”. Quel grido che abbiamo dentro e che normalmente tutti cerchiamo di opprimere e soffocare, da solo sarebbe già sufficiente a postulare un Paradiso dove tutta questa nostra sete, tutti questi nostri desideri, tutto ciò che ricordiamo della nostra vita (e ancor più ciò che non ricordiamo), venga valorizzato, riconosciuto, mostrato, dissetato, esaltato, amato. Tutta la nostra vita (che non è neanche lunghissima: due o tre miliardi di secondi al massimo) infinitamente amata, infinitamente saziata. Non può non esistere il Paradiso.

giovedì 24 febbraio 2011

Sogni, anzi, no: desideri

Basta un pizzico di sguardo disincantato per accorgersi di quanto sia involontariamente eloquente la pubblicità. Vedo cartelloni che recitano il più consunto degli slogan: il tuo sogno diventa realtà. Tanto per cambiare.

Ora, nel leggere quelle parole ci si dovrebbe domandare subito: che differenza c'è tra sogno e desiderio? Già sappiamo quanto sia ambigua, nell'uso comune, la parola desiderio: quando, per esempio, vediamo qualcuno che nel vendicarsi crudelmente afferma che “desiderava fare giustizia”.

Ma quando si usa la parola sogno si sottintende molto spesso l'aver messo in stand-by la propria ragione. È generalmente una fuga dalla realtà, qualcosa di irrealizzabile o di eccessivamente sproporzionato. Come quelle undicenni che affermavano di “sognare” una vacanza alle Hawaii, non solo senza neppure sapere dove sono le Hawaii, ma senza neppure saper dire perché alle Hawaii la vacanza sarebbe meglio che sulle spiagge della costiera.

Insomma, generalmente si dice “desiderio” per intendere qualcosa che abbia a che fare con la realtà, mentre i “sogni” sono per lo più composti da parole fascinose ma ultimamente vuote, di mutevoli immagini di una felicità irrealizzabile.

Dunque, codesta azienda afferma di avere il potere (previo congruo pagamento) di far diventare realtà un tuo particolare sogno. L'azienda, per vendere il proprio prodotto o servizio, deve convincerti che lo stavi sognando. L'illustrazione sul cartellone tenta di farti “sognare” (anche solo per associazione di idee), ciò che loro si dichiarano pronti a venderti.

Vien dunque da dire che il consumatore (nel senso più beota della parola) è quello che insegue i sogni piuttosto che i desideri, quello che compra sogni insistendo nel dirsi da solo che sono desideri, illudendosi così di saziare (piuttosto: stordire) la sete di infinito che ha nel cuore. Mi ritorna sempre in mente Cesare Pavese, quando dice che c'è una sola cosa peggiore del non riuscire a realizzare i propri desideri[1]. Ed è il realizzarli.


1) Vale anche per i sogni.

venerdì 18 febbraio 2011

Il pulcino vuol fare il galletto (in tutti i sensi)

Oggi siamo bombardati da immagini, subiamo un'inflazione di immagini: i pubblicitari lo sanno bene, traggono le conseguenze, perché la pubblicità deve colpire e deve lasciare un messaggio quanto più semplice ed efficace possibile.

Ecco un esempio: un cartellone pubblicitario in cui si vede solo un pulcino con la cresta da pollo e le zampe da pollo. È la pubblicità di un “prestito”, cioè una di quelle manovre in cui ti anticipano 5000€ sull'unghia ma tu firmi per restituire 8-9000€ in “comode” rate (nella pubblicità la moltiplicazione tra il numero di rate e il numero di euro per rata non viene mai fatta...)

Il pulcino sei tu: vorresti fare il galletto ma ti manca ancora parecchio cammino. L'agenzia che ha commissionato il cartellone ti garantisce che potrai fare il galletto: vedi? Cresta e zampe, cosa vuoi di più? Potrai fare subito il galletto, e pagare poi in “comode rate” (interminabili anni di “comode” rate).

Non so voi, ma a me ricorda la dinamica del peccato, a partire dalla tentazione: procurarti un bene minore (5000€ subito) perdendo un bene maggiore (8000-9000€, in “infernali” interminabili rate). Il peccato ti snatura: hai la cresta per fare il galletto, ma resti evidentemente un pulcino; il diavolo ti può garantire perfino due forti zampe, ma non avrai la forza per percorrere chissà che strada.

Le agenzie pubblicitarie distillano i più scientifici metodi del venderti sogni, un po' come il demonio. La pubblicità e le tentazioni necessitano della tua volontà, hanno bisogno di un tuo assenso, proponendoti perfino ciò che non avevi mai pensato prima (come l'industria farmaceutica che inventa malattie per venderti farmaci). Hanno solo bisogno di un atto della tua volontà, hanno bisogno solo di un tuo “sì”.

lunedì 7 febbraio 2011

Piccole Tracce, Grande Formato

Il motivo per cui sono così fiero di Piccole Tracce è nel fatto che riesce ad essere il giornale dei bambini senza essere cretino. Riesce a parlare di fede senza mostrarsi saccente o (quel che è peggio) moralista. Riesce a descrivere giochi di una semplicità estrema, senza essere noioso. Riesce a raccontare, insegna a osservare, riporta parole del Papa comprensibili anche ad un bambino. Perfino le (poche) paginette pubblicitarie sono gradevoli.

Da bambino osservavo con curiosità qualche compagno di scuola che leggeva un “giornalino” all'epoca molto gettonato in parrocchia. Quando potevo, ne sfogliavo avidamente le pagine, ma al termine della rivista avevo la fastidiosa sensazione di non aver trovato nulla di nuovo. Loro e il loro “giornalino” erano un tutt'uno, una fede più recitata che vissuta, un elenco di cose da sapere e da fare, delle facce come i noiosi personaggi di quei fumettini. Per fortuna i loro discorsi non erano fumosi come le rubriche della rivista. Ah, se avessi avuto all'epoca Piccole Tracce!

Piccole Tracce è la bella copia di quel che avrebbero dovuto essere tanti “giornalini”.

(Tutto questo per dire che... col primo numero del 2011, Piccole Tracce cambia formato: ancora più grande!)

domenica 6 febbraio 2011

CL sceglie il vescovo di Milano...?

Poche cose sono più divertenti del vedere i “nemici di CL” agitarsi e gridare allo scandalo. Ogni tanto mi vien voglia di aprire su questo blog una rubrica Il Potere di CL che raccolga notizie secondarie che però turbano il sonno di coloro che vedono Comunione e Liberazione come fumo negli occhi.

La notizia di oggi sarebbe questa: don Julián Carrón, “leader di CL”, è tra le personalità che «sotto segreto pontificio» dovranno indicare preferenze sul futuro vescovo di Milano.

lunedì 31 gennaio 2011

Riconoscenza

Il don Carròn ha scritto a tutti noi una lettera di due pagine, sintetizzabile secondo me in una sola parola: “riconoscenza”. Strana parola, nel mondo di oggi, utilizzata raramente e quasi soltanto per accusare qualcuno di esserne incapace.

È con un sincero sentimento di riconoscenza a Giovanni Paolo II (che in due pagine il don Carròn mi ha soltanto confermato essere più che giusto) che farò la grande maratona a fine aprile, cioè esercizi della Fraternità a Rimini e poi a Roma per la beatificazione.

venerdì 21 gennaio 2011

Quella Madonnina rimasta in piedi

La foto della statuetta della Madonna che ha “fermato” con le mani la piena dell'alluvione... è un irresistibile invito alla speranza.

martedì 18 gennaio 2011

Innamoratevi! Su, forza!

Cercando notizie sul don Massimo mi imbattevo in un noioso articolo sulle prediche che dice delle cose che a chiunque (me compreso) sembra di aver letto già diecimila volte.

Ma ad un certo punto c'è un'esortazione che mi fa sobbalzare rumorosamente: «Volete annunciare Gesù Cristo? Innamoratevi di Gesù Cristo!»

Premio Colossale Castroneria 2011 per aver utilizzato l'imperativo del verbo innamorarsi, per di più avendo come target Nostro Signore.

domenica 9 gennaio 2011

Non ho mai visto nessuno vivere così

Lo dico senza troppa diplomazia: quell'articoletto di Tat'jana[1] sembra scritto per un giornalino parrocchiale. Descrive qualche attività del CLU[2], riporta qualche espressione, elenca cose che normalmente fanno sbadigliare chiunque (“lezioni, riposo, gite, canti, giochi e serate insieme”: e che è? un villaggio vacanze? peggio: un ospizio? molto peggio: un campo scuola parrocchiale?)

Di gruppi di giovani più o meno religiosi se ne contano un po' ovunque. Magari può già colpire il fatto che il CLU conti parecchie centinaia di studenti: vederne 300-400 riuniti solo per dire l'Angelus fa un certo effetto (specie se arrivi lì e non riesci ad entrare perché non c'è più nemmeno un centimetro libero)... Di solito i gruppi “religiosi” raramente raggiungono qualche decina, e raramente condividono così tanto (caritativa, scuola di comunità, vacanze, CUSL e quant'altro). Ma c'è qualcosa di molto più grande di quei numeri.

Quel che rende significativo l'articoletto è ciò che la Tat'jana tenta approssimativamente di precisare nelle ultimissime righe: quel “piccolo” (si fa per dire) gruppo di ragazzi vive assai più intensamente di quanto i suoi amici in terra russa siano in grado di immaginare. Lì la fede non è un orpello per il tempo libero. Tat'jana ha visto, ha capito, e tenta di descriverlo. Facendolo si è probabilmente resa conto di non aver detto niente di inaudito. Nello scrivere «riposo» avrà magari pensato “quanto sono banale”. E poi avrà lasciato lì quel sostantivo, per amor di precisione, perché non riesce più a cancellare dagli occhi ciò che ha visto, non riesce a diminuire neppure un particolare secondario, perché ciò che normalmente suona banale, lì tra quei ragazzi del CLU è vissuto in modo diverso, nuovo, più intenso.

Tat'jana ha visto e non riesce a fare a meno di trasmetterlo a chi le sta intorno, a costo di guadagnare l'ostentata indifferenza degli esperti di cose religiose. Mentre scriveva che vale la pena di «guardare con attenzione alla loro esperienza», si sarà certamente chiesta come fare a portarla nella sua terra.[3]


1) «Non ho mai visto nessuno vivere così», su Tracce di dicembre 2010.

2) CLU: Comunione e Liberazione Universitari.

3) A ben guardare, quella di Tat'jana è esattamente l'esperienza di coloro che hanno incontrato Cristo. Dal lebbroso che non riesce a fare a meno di lodare Dio a gran voce per la guarigione, all'apostolo Paolo all'areopago (con gli esperti che “su questo ti sentiremo un'altra volta”), agli evangelisti così minuziosi nel riportare particolari secondari (“erano le quattro del pomeriggio”)... I soloni di oggi ridicolizzerebbero l'articolo di Tat'jana, senza capire che non conta ciò che lei esattamente dice, ma conta perché lo sta dicendo con tanta passione.

sabato 8 gennaio 2011

Esisto anch'io!

Leggo su un muro una fiera scritta: «scission». E la firma.

Scissione da chi? Da che cosa? Perché? A che pro?

Scission. C'è bisogno di scriverlo in simil-inglese, perché sembri più importante, perché abbia più enfasi. Riguarda una “scissione” tra gruppi di tifosi della stessa squadra. Quindi il messaggio è comprensibile solo a loro, alle due fazioni, qualla “scissa” e quella originale, sempre che quest'ultima si sia davvero accorta della scissione e ne provi orrore. Sempre che.

Tutte queste scritte sui muri rappresentano un unico grido, quello della solitudine che si è evoluta prima in paura e poi in terrore: il grido dell'«ehi, esisto anch'io!»

venerdì 7 gennaio 2011

La bruttezza è solo il sintomo

Quando mi sposto per lavoro e non ho fretta entro in ogni chiesa che trovo. Un po' per gratias agere al Santissimo e un po' per curiosità. Talvolta con qualche bella sorpresa, come quella chiesetta nella curva del vicoletto: fuori annerita e scrostata, dentro linda e ordinata e con un maestoso ostensorio sull'altare. Ma all'adorazione eucaristica c'era solo una giovane, inginocchiata al secondo banco. Il clero, depositato Nostro Signore nell'ostensorio, aveva altro da fare in sacrestia.[1]

Di solito, nell'entrare, il primo penoso impatto è con quel pesante odore di alito di anziani. Contemporaneamente ti accorgi di una quantità di luci al neon che illuminano tutte le cose meno necessarie. Scopri nello stesso tempo che la chiesa è tappezzata di oggetti pressoché inutili: avvisi, altoparlanti, cartelloni, microfoni, espositori, lampadine (al posto delle candele), faretti, poggiachitarre, stufe, cesti, piante...

Le cassette per le offerte sono messe in posti importanti tanto più quanto la chiesa è brutta. Una chiesa a forma di garage non ti fa venir voglia di contribuire al decoro: sarebbe come regalare soldi a un drogato nella speranza che non si droghi più.[2]

Ieri sera entravo in un'altra di quelle chiese insignificanti fuori ma belle dentro. Decorosa e senza troppi ammennicoli. Nei primi banchi erano sedute due suore, una vestita di bianco[3] ed una di un colore molto scuro. Ma non erano in preghiera, erano lì per le “prove di canto”: vedo purtroppo affiorare il manico di una chitarra, la suora in abito scuro comincia a dar sulle corde.

Le schitarrate in chiesa sono come i cartelloni e gli espositori. Vorrebbero ravvivare e abbellire, invece esaltano le brutture e fanno emergere il vuoto. Vorrebbero animare la liturgia e invece sortiscono l'effetto opposto. Il più grande handicap oggi è l'essere pressoché totalmente incapaci di distinguere il bello (e perciò di riconoscere il vero). Col risultato che si mescola il brutto e il bello, l'aceto scadente col vino d'annata, la grettezza moderna tra le vestigia di quei tempi in cui la fede era una cosa tremendamente seria anche per chi non credeva.

No, suor Chitarra non era affezionata al brutto. È per obbedienza che faceva così. Le hanno sempre detto che la fede è quella, che per rendere gloria al Signore occorre scanzonettare quelle nenie cretine, che per lodare l'Altissimo occorre rimestare fino alla nausea sempre lo stesso parolame veterotestamentario. Le hanno sempre detto che la messa è bella solo se “animata” in quel modo e che anche una bella chiesa deve essere “animata” da schitarrate, battimani e cartelloni; le hanno sempre fatto capire che la chiesa può essere usata come sede per le “prove di canto” come se fosse un garage; a quella puzza di alito stagnante ci ha fatto l'abitudine perché sono tutti pronti a piazzare un nuovo cartellone ma nessuno ha voglia di aprire i finestroni per dieci minuti. E lei ci ha creduto, perché vede che tutte le chiese moderne sono fatte così, hanno bisogno di “animazione”: si è adeguata, ha obbedito, si è piegata al brutto perché non voleva inimicarsi il mondo intero, non aveva la forza di farlo.


1) Un'altra scenetta molto recente: un fedele, appena entrato, si dirigeva verso il confessionale ed il sacerdote (che molto probabilmente lo aveva visto) sgattaiola via nella direzione opposta, come fuggendo dall'uscita di emergenza. Il primo col cuore sanguinante, mendicante perdono, e il secondo che di gran carriera abbandona il suo posto di combattimento perché ha altro da fare. Che strana, quest'epoca moderna, fatta di preti indaffaratissimi.

2) E dire che i nostri beneamati pastori sprecano milionate e milionate di euro per chiese che gareggiano in bruttezza.

3) L'abito di certe suore sembra un camice da vecchia badante extracomunitaria: quest'epoca verrà ricordata come il trionfo del dozzinale.

mercoledì 5 gennaio 2011

Visto uno, visti tutti

C'è dunque anche quest'ultimo filmetto d'azione, con tutti i soliti ingredienti.

Materiali: aerei, automobili di pregio, case da pascià, treni da favola, potentissime tecnologie a portata di mano... e naturalmente pistole, mitra e fucili (altrimenti non sarebbe un film d'azione).

Scene: corteggiamenti, inseguimenti, spiagge da sogno, cene... e naturalmente baci appassionati.

Trama: ci sono i buoni e i cattivi che si contendono un oggettino di valore (di dimensioni tascabili); i cattivi tentano di trafugarlo, i buoni si difendono nonostante gli equivoci e alla fine non solo ammazzano tutti i cattivi ma coronano anche una romanticissima storia d'amore, giacché i buoni sono sempre bellissimi e innamoratissimi.

Personaggi: il bello e la bella sono i buoni, mentre tutti gli altri sono o personaggi secondari o sono cattivi cattivissimi irrecuperabili che meritano solo di fare una brutta fine.

Sesso: se non è esplicitamente rappresentato allora vi si allude ripetutamente.

Quiz: non chiederei di quale film si tratta... chiederei piuttosto di quale film non si tratta, visto che ho perso il conto di quanti hanno questo stesso stampo. Anche tra quelli dove al posto delle pistole ci sono le spade.