giovedì 28 febbraio 2013

Nell'anno della fede, il Papa si ritira

Qualche giorno fa leggevo finalmente la gradita notizia della imminente chiusura dei Twitter di Benedetto XVI. La scusa ufficiale è che con la sede vacante non è il caso di tenerli attivi. Il motivo inconfessabile è che gli ideatori della sesquipedale iniziativa hanno finalmente intuito che utilizzare la figura del Santo Padre per favorire l'imminente ingresso in Borsa di un'azienda americana, con vastissimo corollario di irrisione e insulti, è stata semplicemente una pessima idea. Che purtroppo non è estranea da una diffusa mentalità.

Certo cattolicume parrocchiardo dalla pancia piena e dalla connessione internet sempre funzionante pensava che ostentare sul proprio blog immaginette da tifoseria papista fosse sufficiente per stare una spanna al di sopra dei tiepidi e dei cretini. Tifoseria che generalmente plaudiva compiaciuta ai patetici tweet dell'apposita équipe vaticana che riduceva le lezioni di Benedetto XVI a melense frasette da incarti di cioccolatino. Si illudeva che bastasse “prendere posizione”, magari con tre righe di proclama sulla propria bacheca Facebook e qualche re-tweet per mantener viva e scalpitante la santa Chiesa. E all'improvviso arriva la doccia fredda delle “dimissioni” del Papa. Che sconvolge anzitutto i semplici. Che sconvolge chi veramente ama il Papa.

Mia madre, stupita e allarmata, mi chiedeva: “ma tu non dicevi che il coriaceo Papa tedesco non si sarebbe mai dimesso?” Non sapevo cosa rispondere. Ancor oggi non so cosa rispondere. Neppure il giudizio di don Carròn mi basta di fronte allo sbigottimento di mia madre. Specialmente domenica scorsa a mezzogiorno, quando sul TG4 vedevamo la diretta dell'ultimo Angelus mentre il cineoperatore indulgeva sullo striscione “Comunione e Liberazione”. Oppure ieri, quando alla sua ultima udienza è stato accolto ancora una volta non dalla sincera supplica di resistere e di ritirare le “dimissioni”, ma dalla festosa rassegnazione contornata di applausi, di sventolio di bandiere e di cori da stadio, come se si trattasse di un atleta che annuncia trionfante la conclusione della propria carriera agonistica.

La barca di Pietro è nella tempesta più nera. Il Papa annuncia le proprie “dimissioni”. Orde indiavolate di avvoltoi si levano in volo agguerrite come non mai. E l'unico segno di vita proveniente da tanti cattolici è qualche timido belato. Chi ha osato implorarlo di ritirare le “dimissioni” ha ricevuto una pioggia di sinistri insulti, specialmente “fuoco amico”. I cattolici rassegnati, plaudenti e sorridenti come se nulla fosse successo, crogiolantisi in un pietismo provvidenzialistico, nulla hanno avuto da dire sul coro unanime di elogi da parte di quella stampa abituata a fabbricare quotidianamente accuse contro il successore di Pietro. Elogi provenienti naturalmente anche da tante serpi dotate di berretta cardinalizia: “il Papa rompe un tabù”, “si è dimesso dal suo servizio di capo”, “come se avesse detto: 'meglio che me ne vada'”, “ha rotto il tabù della sua inamovibilità”...

Tutta la recentissima “apologetica da social network” mi pare solo un tentativo di non pensare all'evento epocale e sconvolgente. Un tentativo di esibire una parvenza di fedeltà. Un tentativo di non accorgersi della eccezionale gravità della situazione. Un modo per non pensare a folle sobillate dalla stampa che in piazza san Pietro gridano: Dimettiti! Dimettiti! Il Papa ha dovuto parlare di sé stesso e della sua decisione. Ha esordito dicendo “vedo una Chiesa viva!” ma proprio quelle parole riportavano alla mente le tante brucianti sconfitte. Riportavano alla mente la confusione moderna: liturgica, disciplinare, dottrinale.


“In tutto questo disastro chi ama veramente il Papa? Ama il Papa chi è preoccupato della fede. Il successore di Pietro c'è nella Chiesa come custode della fede e dell'unità disciplinare che da essa discende. Allora amare il successore di Pietro, amare il Papa, vuol dire amare il suo compito, cioè il custodire il deposito e il confermare nella fede i fratelli. Amare il Papa fino alle lacrime, vuol dire amare la fede cattolica fino a morire per essa, come i martiri”.

lunedì 11 febbraio 2013

Sempre a ricordare la libertà

Una persona tutta pimpante mi segnala il comunicato di don Carròn sulle “dimissioni” del Papa. Nel leggerlo, ho avvertito tutto il dolore di don Carròn.

A causa della decisione del Papa, da domani -anzi, già da stasera- avrò il poco piacevole onore di distinguere con enorme chiarezza i ciellini imborghesiti da quelli che hanno capito almeno qualcosa del movimento. Vedrò coloro che si riempiono la bocca di paroloni ciellini come “drammaticità” e vedrò i (temo assai meno numerosi) ciellini come me che quando pronunciano la parola drammaticità avvertono una fitta lancinante.

Don Carròn ha ben presente l'imborghesimento di ampi settori del movimento di Comunione e Liberazione. Dove la virtù della speranza viene comodamente trasformata in un sorridente ottimismo. Dove la virtù della carità viene trasformata in un generoso impegno (magari anche fruttuoso, magari anche sincero, ma tutto sommato “impegno” incastonato nella propria agenda ed a cui si dedica più il corpo che l'anima, più i soldi che le virtù teologali). Dove la virtù della fede viene trasformata in imponente e perspicace ripetizione dei “discorsi del movimento” (magari anche comprendendoli un po', ma spendendo cento parole laddove ne basta una: annacquando cioè quello che ci ha davvero svegliati, rimessi in piedi, acceso il fuoco dentro, guariti dallo scandalo dei nostri stessi peccati). Che poi in fondo in fondo sono le stessissime cose che avvengono in tutti gli altri settori della Chiesa.

Ciononostante, proprio il don Carròn stesso deve indicarci la direzione da guardare: la libertà di don Joseph, libertà grandissima perché capace di operare una scelta grandissima (in qualità di Papa, è assai più conscio di me e di te delle difficoltà di essere Papa adesso), una scelta che era stata inimmaginabile da sei secoli. Don Carròn deve ricordare quanto sia necessario -subito, senza sconti- mettere da parte l'entusiasmo umano per capire cosa significhi libertà in quella circostanza e cosa c'entri con la nostra vita.

Don Carròn lo fa perché al di là dei tipici peccatucci dei singoli, al di là delle comodissime sbandate (che qui chiamo “imborghesimento”), il problema principale è ancora capire cosa significhi essere liberi. Uno può sapere a memoria tutta la dottrina della Chiesa, eppure scegliere il “bene minore” rispetto al bene maggiore; uno può aderire a Cristo con tutta la propria volontà, eppure desiderare altro, avvertendo la fede come un peso anziché come una liberazione.

Quando don Giussani ci augurava di non vivere mai tranquilli, ce l'aveva proprio contro l'imborghesimento. Il cui primo comodo frutto è dimenticare la libertà. Ridurla ad un concetto astratto. Esonerarla dal dolore. Renderla una cosa asettica. Il ciellino tutto volantoni, telegiornale, scuola di comunità, telegiornale, banco alimentare, telegiornale, vacanzina, finisce a poco a poco per non capire più cos'è la libertà.