giovedì 4 dicembre 2014

Quegli episodi importanti della vita...

Leggevo poco fa in un forum web dedicato al modellismo l'area dove i nuovi membri appena iscritti si presentavano parlando della propria passione e menzionando i piccoli episodi che l'avevano accesa. E mi chiedevo come sarebbe un forum cattolico in cui i membri accennano brevemente ai piccoli episodi che hanno cambiato la loro vita accendendo la fede.

Qualche tempo fa partecipai in parrocchia (come claque) ad un incontro “vocazionale” in cui i seminaristi presenti raccontavano qualche episodio significativo della propria vocazione. Subii un interminabile diluvio di cretinerie: raccontavano di sensazioni oppure elencavano attività, ferma restando la loro disarmante incapacità di esprimersi, infondendo efficacemente l'idea che il sacerdozio sia una roba per stupidi svitati.[1]

I preti non solo facevano finta di non notare quell'incapacità (limitandosi, nei casi peggiori, a ridurre a categorie da psicologia spicciola gli interventi più maldestri), ma addirittura elogiavano senza sosta la raffica di cretinerie in quanto spontanea (confondendo la sincerità con lo spontaneismo).[2]

Non c'è da meravigliarsi che quegli stessi soggetti disprezzino Comunione e Liberazione: uno dei pilastri fondamentali del movimento è quell'accanita insistenza nel riconoscere le proprie domande più elementari, nel saper dare un nome alla propria sete di verità e di compiutezza, nel prendere sul serio la propria vita e la realtà concreta, nell'identificare onestamente (e senza far prediche) ciò che ha fatto crescere la propria fede.


1) La capacità comunicativa non è realmente essenziale per una vocazione sacerdotale. Un candidato capace di esprimersi quel poco che basta per amministrare i sacramenti può già essere un buon sacerdote: al resto penseranno gli altri. Ma -ahinoi!- oggi si confonde la capacità comunicativa con la capacità di dire banalità politically correct in modo brillante durante le omelie...

2) L'epidemia dello spontaneismo nella Chiesa cattolica andrebbe combattuta con misure drastiche. È credenza comunissima, ai limiti del dogmatico, che il voler dire qualcosa implichi l'aver qualcosa di concreto da dire. Non c'è solo il problema dei soggetti che intendono arieggiare l'ugola mettendosi al centro dell'attenzione; ci sono anche quelli che pur desiderando dire qualcosa, sono alquanto incapaci di esprimersi (o peggio, adoperano duecentonovanta parole laddove ne bastavano quattro). Così assemblee, riunioni, incontri, diventano una pena da purgatorio. Tutto questo per la fissazione del dover “dare la parola a tutti”. Tale epidemia ha infestato anche la liturgia: dal 1965 è prevista la “preghiera dei fedeli” che la Chiesa aveva saggiamente abolito fin dalla notte dei tempi.

lunedì 1 dicembre 2014

Non c'è più spazio per te

Il 23 dicembre ebbe la temuta conferma: il contratto non era stato rinnovato, da fine anno non ci servi più. Se ne tornò nell'open space con un'espressione funerea in volto, nessuno gli fece domande: lo sanno che il mercato del lavoro funziona così, lo sapevano che qualche altra risorsa non sarebbe stata confermata, da qualche settimana si erano pian piano segretamente preparati all'eventualità di fare a meno di lui. Così, passò tutta la giornata di lunedì a perdere tempo con videogiochino del solitario e altre amenità: nessuno ebbe da ridire, un po' per umano rispetto del dolore, un po' per timore delle imprevedibili reazioni di uno che evidentemente suda fulmini, e un po' anche perché nessuno può essere certo che a fine 2014 non toccherà pure a lui.

Anche il venerdì successivo, suo ultimo giorno di lavoro, riuscì a perdere tempo per tutta la giornata. Qualcuno, più per abitudine che per reale necessità, gli chiese di verificare un nonsocosa da un nonsodove, ma lui evase la domanda: era lì ormai per marcare presenza, non per lavorare, era lì per non accendere inutili fuochi in una foresta già incendiata. Ed era ancora giù di morale, perché a versare sale sulle ferite ci si era messo il parroco con quella prevedibile e noiosissima omelia di Natale sulla bontà, sulla carità, sulla fratellanza, sul perdono e soprattutto sulla raccolta straordinaria di fondi in cui esercitare la massima generosità perché “stavolta è davvero molto importante”. Mentre ancora il parroco parlava, lui ha tirato fuori la busta dal taschino, ci ha tolto le banconote che aveva messo prima di Natale e l'ha consegnata vuota, sapendo che gli sguardi corrono rapidi e le voci ancor più rapide e sperando che il parroco abbia il coraggio di chiedergli personalmente cosa c'è che non va.

Speranza vana. Uno dei drammi della Chiesa che ama definirsi vicina alla gente è quello di non capire altra “gente” che i cattolici da salotto con la pancia piena. Infiniti discorsi sui poveri e incapacità di riconoscere la povertà, così come infiniti discorsi scientifici sul pelo del leone ma incapacità di riconoscere un leone vero nel vederlo tutto intero. Quella Chiesa che si vergogna di dire chi è Cristo ha finito anche per allontanarsi dalla vita dell'uomo. Neanche cinquant'anni fa il parroco era l'uomo “vissuto”, l'amico “acculturato”, il confidente che ti capiva anche quando non parlavi. Era l'uomo che sapeva meglio di te come si tiene in piedi una famiglia, come si resta a galla nonostante la crisi economica, come si fa a far quadrare le partite doppie senza far peccato mortale, era l'uomo che interpellavi quando volevi avere la certezza sul tuo matrimonio o su quello di tua figlia. Era l'uomo delle certezze della vita.[1]

Probabilmente uno degli indicatori più graffianti dello stato in cui versa la Chiesa oggi è l'insensibilità dei preti verso quel genere di drammi, di fronte ai quali elargiscono frasi di circostanza - cioè sale sulle ferite - o patetici tentativi di elemosina - cioè altro sale sulle ferite.

Un clero che parla sempre di pace e bontà senza precisare i termini del peccato e della grazia, che commenta sempre gli stessi triti e ritriti brani biblici, che racconta sempre le stesse cose, e che continuamente chiede soldi per gli obiettivi più svariati riuscendo a non vedere (o peggio a banalizzare) i drammi personali dei fedeli che gli sono affidati, non dovrebbe affatto meravigliarsi di ritrovarsi le chiese sempre più deserte.


1) Il nonno lo ricorda bene. Il parroco era forte di mani e di dottrina. Lo imbarazzava solo un gesto, quello del dover chiedere soldi, che faceva il meno possibile: e più lo imbarazzava e lo evitava, e più soldi misteriosamente gli piovevano addosso. Sapeva riconoscere i poveri dagli accattoni, e perciò le sue (relativamente) segrete elemosine finivano inspiegabilmente nelle mani giuste: lo si notava da come fruttavano.

domenica 23 novembre 2014

Il movimento liquefatto in movimentismo

In un vecchio articolo di De Mattei leggo una domanda di quelle che scuotono parecchio: perchè i difensori più accaniti del Vaticano II, ed oggi i critici più severi di Gnocchi e Palmaro, provengono dall’area culturale di Comunione e Liberazione?

Molti anni fa non credevo alle mie orecchie quando un caro amico di CL con serietà e gravità mi metteva in guardia: i movimenti passano, la Chiesa resta, un giorno il massimo per la tua vita potrebbe non essere più il movimento. All'epoca mi parve un po' apocalittico. Ne ho visti tanti, in vita mia, lasciare il movimento per i motivi più patetici: convenienza elettorale, confusione tra “CL” e “i quattro idioti che ho davanti”, mancato obiettivo di trovarvi una fidanzatina... Lasciò il movimento anche quel giovanotto apocalittico. Ma quelle parole, di fronte alla domanda di De Mattei, le vedo ritornare improvvisamente a galla.

Il fatto è che il movimento così come l'ho conosciuto non coincide col movimentismo che vedo oggi, dove c'è un accanimento nel mantenere posizioni (culturali, sociali, perfino politiche e teologiche) che don Giussani aveva provveduto a seppellire personalmente. L'accanimento è infatti l'attributo principale dell'ideologia. I termini indicati da De Mattei sono esattamente la descrizione dell'imborghesimento di vaste aree del movimento di CL (la riduzione intellettualistica, dei giussanologi, e la riduzione attivistica, dei cielloti sono il risultato finale dell'istituzionalizzazione di un'esperienza, della riduzione del movimento ad un club).

Era terribilmente fecondo per la nostra vita spirituale l'essere disprezzati dai parroci, rinnegati dai vescovi, ignorati dai media (tranne quando c'era da montare scandali contro di noi). Quelle ingiuste persecuzioni ti condannavano a ricercare sempre le ragioni di tutto. Ti facevano vivere certi gesti (anche semplici come la liturgia delle ore) come una necessità vitale quotidiana anziché come l'affermazione di un'identità. Quel che maggiormente mi convinceva del movimento era ciò che l'accompagnava nella sua pretesa di essere dalla parte della verità: e cioè il fatto che ti sfidava continuamente a verificare tutto nella tua stessa esperienza,[1] senza trascurare nulla di ciò che vivi. Al punto che don Giussani poteva permettersi gesti audaci al limite della temerarietà (ma in fin dei conti educativi perché era sempre chiaro ciò che lui indicava) come il regalare libri marxisti ad un giovane sedicente marxista, o di invitare un giovane ebreo ad andare fino in fondo nella sua esperienza dell'ebraismo (col chiaro sottinteso: non troverai la felicità, perché non è lì ma è in Cristo).

Don Giussani poteva farlo perché i giovani citati non avrebbero potuto più cancellare dalla loro vita l'incontro con lui. Il pilota addestratore può permettersi acrobazie in volo che l'allievo non riuscirebbe a fare neppure in bicicletta. L'aspirante allievo che volesse emularle anche solo a parole farebbe una pessima figura. Invece da qualche tempo a questa parte si vede spesso la scena dell'allievo che pretende di fare meglio e più del maestro, confondendo la sfida ad “andare fino in fondo” come un modo elegante di professare proprio quel comodo relativismo che avevamo sempre condannato. “Comodo” nel senso di -per esempio- porsi senza opporsi. Fino a scene surreali come il confondere il dovuto rispetto ai governanti col servilismo verso certi politici che per qualche misterioso motivo vengono ritenuti “utili”. Piccinerie da cattolici imborghesiti.

Quando il movimento era perseguitato, avevamo continuamente l'esigenza urgente di andare alle radici della nostra esperienza. Ora che il movimento si è per gran parte imborghesito (effettaccio collaterale dell'istituzionalizzazione), quell'esigenza si è ridotta ad un... pomposo discorso sull'esigenza. Confesso che certe volte mi sento un po' tradito, pur avendo sempre verificato che le debolezze interne di CL sono dopotutto perfettamente parallele a quelle dell'orbe cattolico.

A differenza di De Mattei, che probabilmente conosce CL solo dalla lettura di libri e articoli, a me non risulta che l'orizzonte ciellino fosse quello della nouvelle théologie progressista. La sfida a verificare tutto nella propria esperienza era -ed ancor oggi è- in polemica con la riduzione intellettualistica (o sentimentalistica) della fede. Don Giussani prima e don Carròn poi si sono sgolati a ricordarlo per evitare che il popolo bue, mosso dalle piccinerie del momento, cadesse nella trappola. Don Giussani riusciva a citare perfino un De Chardin, senza farne un maestro. Né furono veramente nostri maestri - per quanto li si abbia apprezzati - i vari De Lubac, Von Balthasar, De La Potterie... nomi che ci suonano graditi e familiari,[2] ma nessun ciellino è diventato tale (o almeno rimasto tale) attingendo da loro per capire don Giussani. Ad un osservatore esterno come De Mattei è facile etichettare ma a facilitarglielo è stato proprio il movimentismo di quei sedicenti ciellini che si credono tali perché tappezzano i loro discorsi di “Giussani”, “Carròn” e parole di don Giussani adoperate a mo' di gergo del club.

Come rispetto al resto della Chiesa, anche rispetto a CL si può tentare una prima scrematura osservando chi eventualmente cita il Vaticano II a sostegno di qualcosa e viceversa chi parla in modo da infilare nel discorso qualcosa del Vaticano II (come se stesse perennemente di fronte ad una improbabile commissione inquisitoria sul criptolefebvrismo). Cioè tra chi prende il Concilio per ciò che è, e chi invece lo prende per ciò che il-Concilio-dei-media pretese di essere. Tra chi avverte l'esigenza che Cristo c'entri con tutto (“Cristo c'entra anche con la matematica”, “con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta la forza”), e chi invece ha bisogno di una pezza d'appoggio per affermare qualcos'altro. In tutta onestà, non ho mai avuto l'impressione che don Giussani citasse il Vaticano II più dello stretto necessario, con uno sguardo positivo ma non adulante. Ma i giussanologi di ieri e di oggi, nella fretta di dimostrarsi fedeli a qualcosa,[3] hanno preso fischi per fiaschi ed hanno parlato e scritto e insegnato in modo da trasmettere quella stessa fretta. Questo meccanismo, quest'affermazione di sé, è lo stesso che ha prodotto equivoci in altri ambiti (incluso quello politico e quello dell'organizzazione interna), fino ai patetici attacchi a Gnocchi e Palmaro al solo scopo di affermare (magari in perfetta buona fede) la propria fedeltà a qualcuno.

No, CL non è il prodotto della nouvelle théologie, e le sue autoriduzioni a club culturale/sociale sono o l'effetto in grande scala dell'ignoranza, oppure il risultato dell'istituzionalizzazione e dell'imborghesimento.[4]


1) Un rinomato ecclesiastico raccontava tutto scandalizzato di un giovane ciellino che aveva detto “io credo solo alla mia esperienza”. Anziché leggervi il rifiuto delle ideologie e delle teorie calate dall'alto - se la fede fosse banalmente un contenuto dottrinale, Gesù si sarebbe limitato a pubblicare un libro - il miope prelato credeva di aver a che fare col solito esperienzialismo indifferente all'insegnamento delle cose della fede. Amare Cristo ha sempre avuto come corollario la sete di conoscerLo così come madre Chiesa ce lo presenta. Perciò l'insistenza ciellina sull'esperienza non è stata una ricetta accompagnata da altre ricette, ma è stata la risposta ad un cristianesimo senza desiderio e senza sete, sentimentalistico o intellettualistico. Anch'io direi “credo solo alla mia esperienza” per... rispondere telegraficamente all'insinuazione che ci sarebbe qualcosa dell'umano che non c'entra con Cristo.

2) Fu grazie alle indicazioni di Von Balthasar che la nascente società dei Memores Domini poté ricevere l'approvazione pontificia nel 1988 (pochi giorni prima della sua morte). Fu grazie alle donazioni di William Congdon che poté nascere il monastero alla Cascinazza. La grande gratitudine per Congdon sfocia in una incondizionata ammirazione di tanti tifosi ciellini per i suoi brutti dipinti. Per questo ho usato il termine “familiarità”. Per questo sono convinto che l'eventuale ammirazione per Von Balthasar da parte di tanti ciellini sia il risultato di una “familiarità” piuttosto che di un improbabile balthasarismo ciellino.

3) Il percepire un continuo bisogno di proclamarsi fedeli al Vaticano II è un ottimo spunto di riflessione per quanto riguarda la salute mentale e quella spirituale.

4) Per istituzionalizzazione intendo in realtà i suoi effetti collaterali, tra cui la perdita di una parte di libertà dovuta al fatto che ora siamo “un movimento come gli altri”, cioè siamo soggetti a tutta una serie di noiose omelie e noiosi gesti ecclesiali di cui prima, in quanto perseguitati, eravamo felicemente esonerati.

venerdì 7 novembre 2014

Parrocchie d'entertainment

Un'amica che sta collaborando ad uno spettacolino allestito da un parroco si è vista chiedere di comporre una poesia dedicata alla Madonna. Subito ha messo mano al telefonino per subappaltare la fastidiosa incombenza chiedendomi di buttar giù qualche riga o magari l'intera poesia già pronta per l'uso. Cioè è uno di quei casi in cui metti in gioco tutta la più delicata diplomazia riuscendo infine nell'intento ma perdendo un'amica.

Il fatto è che per poesia oggi si intende un elenco rimato di espressioni mielose. Tanto più in occasione di festività religiose e ancor più nelle parrocchie, ed oltremodo più per il soggetto scelto: che? far recitare miei versi sulla Virgo Virginum di fronte a degli emeriti sconosciuti convenuti lì per uno spettacolo di intrattenimento? “Sei il solito lamentoso”, mi diceva con perfidia tutta femminile, “non ti si può chiedere nemmeno una cosa che ti farebbe piacere”.

Senza rendersene conto lei stessa ha in quel modo implicitamente ammesso due punti fondamentali. Il primo è che per trasmettere un messaggio occorre anzitutto che il destinatario desideri riceverlo. Il secondo è che non puoi trattare le persone che ami (tanto meno la Mater Divinae Gratiae) con gli stessi metodi con cui tratti le cose (se mi avesse chiesto una poesia sui cingolati agricoli non mi avrebbe trovato “lamentoso”).[1]

Il tipico parrocchiano non è spiritualmente assetato. Ottempera ai doveri del buon cristiano (quando ne ha voglia, e nemmeno a tutti) marcando presenza quel tanto che basta. I parroci italiani ne sono consapevoli (se non della stessa pasta) e sanno benissimo che ad organizzare una conferenza sul come conservare la virtù della purezza vedranno molti meno partecipanti che ad un musical sulla bontà... e vedranno molta più ostilità e derisione, anzitutto dai loro confratelli e da sua Eccellenza Reverendissima che a mezza bocca sta comandando - come il resto dell'episcopato - di escogitare ogni stratagemma contro la desertificazione delle comatose parrocchie.[2]

La perdurante crisi della Chiesa è cominciata (e sta esattamente proseguendo) col vergognarsi di dire chi è Cristo. Per cui le parrocchie sono divenute asettici enti emettitori di certificati e di banalità politicamente corrette. C'è da decenni la sconcertante convinzione che occorra attirare la 'gggente alla parrocchia, blandirla e assecondarla in ogni modo, per poter infine avere la possibilità di spendere una parola giusta, che poi si riduce ad una delle solite frasi fatte: Dio ti vuole incontrare, Gesù ti ama, Dio è amore. È lo stesso tipo di errore di chi vizia i propri figli: per indurli a mangiare due cucchiaiate di verdura cotta, devono blandirli con carriolate di doni, dolcetti, promesse, salatini, merendine, regalini, tutto circondato da sorrisi e da adulazione, ottenendo invariabilmente il risultato opposto.[3]

L'amica di cui sopra, incaricata di una particina secondaria nello spettacolo, ha perciò avuto a titolo onorifico compensativo il compito di comporre e leggere una poesiola. Immaginatevi il parroco mentre glielo domanda pensando: facciamogliela fare sugli angeli, anzi no (a causa di quel film idiota che han fatto in TV), facciamogliela scrivere su Gesù, anzi no (le carismatiche della parrocchia se ne risentirebbero), facciamogliela fare su san Francesco, anzi no (duplicazione di temi già trattati), facciamogliela fare sulla Madonna (uh, beh, insomma, che ci vuole? tanto è facile, uscirà pure una cosa dolce come piace alla gente!)... I nomi che più abbiamo cari vengono trattati come “temi”, come “oggetti”, come magiche buzz-word da assemblare insieme (questo sono diventate le omelie oggi: un manierismo sdolcinato costruito sulle macerie del lessico cattolico).[4]

Nelle parrocchie d'entertainment (cioè, oggi, pressoché tutte quelle non piccole) non c'è posto per i ciellini di una volta: questi ultimi ancor oggi pensano che un'adorazione eucaristica[5] valga più del musical francescano, si esaminano prima di decidere se andare a fare la Comunione, si entusiasmano più ad ascoltare le verità di fede che le partite di campionato, provano disagio quando vengono cooptati (a marcar presenza, a lavorare, a pagare) per far sembrare riuscita qualche noiosa iniziativa parrocchiale o diocesana, hanno la fissazione di non voler vivere inutilmente neppure per un istante, sono convinti che è inutile parlare a chi non vuole ascoltare, hanno un fuoco dentro anziché un vuoto. E quel che è peggio, comprendono bene la lingua ecclesialese ma non la parlano, per cui non si può pretendere la loro complicità mentre li si prende per il sedere.[6]

Gli archeologi del quarantesimo secolo, riportando alla luce chiese-garage, paramenti-tendaggio, pigiami-clergyman, icone-sgorbio, poesiole mielose sulla Regina Angelorum, si chiederanno cosa diavolo sia successo alla Chiesa tra la fine del XX e l'inizio del XXI. Come mai ci si sia tanto affannati ad allestire campetti di calcio, impianti di amplificazione, orridi padre Pio, spettacoli musical con contorno di sdolcinate poesiole “mariane”... si chiederanno cosa diavolo sia successo.


1) Il fatto che le lamentele suonino sempre fastidiose non esclude il fatto che gran parte di tali lamentele effettivamente comunicano qualcosa.

2) Il tentativo di gestire la Chiesa con tecniche da management aziendale è fallito in partenza perché coloro che dovevano applicarlo hanno da tempo dimenticato quale è il mission statement (pur sgolandosi a dire che “occorre annunciare il Vangelo”) e quale è il core business (pur sgolandosi a dire che “occorre vivere di più i sacramenti”). Qui il management è riuscito in imprese titaniche: allontanamento di buoni sacerdoti, irrobustimento della burocrazia clericale, ridimensionamento di attività utili ma non remunerative spiritualmente e materialmente (e contemporaneo via libera ad attività elefantiache, inutili e ancor meno remunerative)...

3) “Speriamo che sia tu a perturbare la parrocchia”, mi direbbe don Carròn. Contro ogni speranza lo spera anche il sottoscritto, unico (e malvisto) ciellino delle parrocchie del circondario. “Un miracolo è la nostra sola speranza”.

4) Come in quei carceri dove si usa sodomizzare ogni nuovo detenuto, la primissima brutale violenza spirituale nei seminari cattolici è quando i compagni di seminario, i formatori stessi e persino le Eccellenze Reverendissime disprezzano e irridono (sottilmente o apertamente) la pia innocenza di chi ancora aveva un sincero tremore al cuore nel solo pronunciare i sacri nomi. Non c'è da meravigliarsi che tantissimi preti non abbiano alcun timore di smanettare distrattamente coi nomi di Chi ci è più caro, costruendo con indifferenza omelie e fervorini rimestando sempre la stessa minestra, come bambini che dispongono i pezzi degli scacchi come se assemblassero un frizzante party di bamboline.

5) Capitolo doloroso, quello delle adorazioni eucaristiche: chitarre, accompagnamenti musicali, fervorini da vomito, ostensori da barzelletta giacobina, panchette per poggiare il deretano fingendo di essere ancora in ginocchio, gente che si prostra solo per stanchezza...

6) Metti un coro di ciellini che si fa in quattro per preparare qualche canto polifonico. Metti che nella celebrazione della mezzanotte vengono però accontentati tutti quelli che vogliono cantare e suonare (eh, sì: in parrocchia bisogna dare spazio a tutti). Metti che infine l'untuoso parroco ringrazi il coro ciellino col solito frasario clericale (“oh, bel canto, ha aiutato molto la preghiera” eccetera), e qualcuno di quei volenterosi ragazzi tradisca per un attimo un sorriso di sarcasmo (sappiamo benissimo che quell'adulazione è il “pagamento” per il servigio). E così al Natale successivo non c'era posto per il coro, “però forse, si potrebbe, magari, ci risentiamo, vedremo”...

martedì 4 novembre 2014

Il cancro dell'assemblearismo

In una noiosa assemblea della scuola di comunità un giovane che aveva preso a frequentare da poco sbagliò un termine in una domanda. Una banale confusione di termini lo marchiò a vita, perché un microsecondo dopo erano già tutti a sdegnarsi e a sottintendere: abbiamo capito di che pasta sei fatto, abbiamo capito dove vuoi andare a parare. Dopo aver visto frustrati molti sinceri e umili tentativi di dimostrare di non essere affatto dalla parte sbagliata (nei quali fui anch'io gettato dalla parte del torto perché tentavo di sostituire alla loro istintiva reazione un semplice ragionamento), il giovane prese definitivamente la via per altri lidi.

Buona parte del vergognoso sfascio della Chiesa cattolica è dovuta al fatto che gli ecclesiastici innamorati delle mode sessantottine hanno cancellato il metodo tradizionale (e cioè: questa è la verità, io ve la insegno, voi la apprendete e la verificate) per sostituirlo con un assemblearismo in cui ognuno fa la propria omelia recitando il personaggio che ha scelto. Nel collaborare alla pulizia di uno sgabuzzino parrocchiale (da dedicare a ennesima sala riunioni) scoprii una vecchia busta con dei cartoncini grigioverdino con su stampigliato, a caratteri di macchina da scrivere anni settanta, domandine ai laici su quanto e come coltivassero “relazioni amicali” (sic) e altre imitazioni del già patetico lessico sessantottardo, che - a quanto pare - vescovi e preti intendevano sorpassare a sinistra.

Uno dei principali motivi dell'ostilità al movimento di Comunione e Liberazione (sentimento condiviso dai viceparroci di periferia fino agli alti papaveri ecclesiastici) era che il metodo della scuola di comunità non solo era una contraddizione netta di quell'ammorbante assemblearismo spontaneista di parrocchia, ma ne dava anche ragione: apprendere quelle Verità è addirittura vantaggioso, conveniente, cambia la vita, fino alla baldanza del “ti sfidiamo a verificarlo”, fino al don Giussani in persona che invitava esplicitamente a disertare la scuola di comunità qualora questa non ti facesse uscire cambiato (il che evidentemente richiede oltre ad una tua tensione, anche la tensione di chi guida e -in qualche modo- di chi vi partecipa con te).

Purtroppo anche i ciellini vanno in parrocchia, assorbendone spesso quella mentalità ancora durissima a morire e quei fastidiosissimi atteggiamenti, e le scuole di comunità si sono ridotte ad impegno dove marcare ordinatamente presenza. Non mi fa più meraviglia che esistano persone come quel giovane sopra citato che per un motivo banalissimo si allontanano polemicamente dal movimento, per poi magari sputarvi veleno venti o trent'anni dopo solo per un confuso brutto ricordo. La cancrena che sta invadendo vaste aree del movimento di CL si manifesta proprio coi caratteri dei gruppetti parrocchiali: l'assemblearismo “sociale”, l'entusiasta autoriduzione a professionisti dell'entusiasmo, la recitazione di un copione autoconfezionato e l'ostentazione di un gergo, quelle fastidiosissime frasi fatte («nessuno è perfetto! ma sei sempre polemico? non volevo intendere questo! ma con questo cosa vorresti dire?»), e l'idea di essere superiori agli altri nella misura in cui si dicono e fanno cose cielline.

Quella cancrena ha due forme: l'intellettualismo da giussanologi, e l'attivismo da cielloti. Da diversi anni me ne lamento con frequenza, scoprendo che sono vizietti ereditati dalla parte malata della Chiesa. Proprio quella da cui rifuggivamo, proprio i motivi per cui fuggivamo.

mercoledì 29 ottobre 2014

Dinamiche del mondo del lavoro nell'Italia neosovietica

Non voleva fidarsi dei risultati, non poteva. Voleva una Certificazione con la C maiuscola, un documento a prova di bomba. E così, dopo una imbarazzante sequenza di telefonate a lupi di volta in volta più affamati nel sentire belati di pecora imploranti aiuto, finalmente imbrocca il Professionista Certificatore. Che -bontà sua- telefonicamente gli dice che non si può mettere per iscritto una certificazione se non accollandosi tutte le responsabilità e bla bla bla. Tradotto in italiano: mi paghereste davvero a peso d'oro?

Nel mondo del lavoro i livelli di paranoia sono saliti a vette sovietiche. Non si lavora più sulla fiducia ma sui documenti di certificazione (vere e proprie liberatorie, vere e proprie compravendite di assunzioni di responsabilità). Non c'è più la passione per il proprio lavoro ben fatto, ma il bìsniss-plènn da seguire: il sacro Business Plan da effettuare alla lettera, ideato nei minimi dettagli dalla religione del Faremo Soldi a Palate. Il lavoratore - anche progettista, anche manager, anche commerciale - ridotto ad ingranaggio di una macchina, prontissimo a scaricare la responsabilità ai livelli superiore e inferiore, a seconda delle necessità. Anzi: prontissimo a fare compravendita di responsabilità.[1]

Nelle aziende italiane, attaccate da sei mafie (e non per modo di dire), a guidare il lavoro è il panico. Non esistono piccoli timori e nemmeno grandi paure: esiste solo il panico. Che da una parte è generato dal pressappochismo (per esempio: vita, morte e miracoli di un progetto affidati alla mente di una singola persona: bus factor uguale a uno)[2] e dall'altra genera il pressapochismo (qualsiasi soluzione diventa accettabile se permette di sedare il panico fino a domattina). Perciò qualsiasi piccolo intoppo scatena il panico: ma perché non me l'avevate fatto sapere prima? ma com'è possibile che si sia guastato? ma suo figlio non poteva ammalarsi la settimana prossima? e ora come faremo?

E così il leone che nella Grande Riunione Strategica ruggiva “faremo soldi a palate!”, improvvisamente si trasforma in pecorella belante che chiede aiuto (sì, ma chiede aiuto con lo sconticino, non è mica disposto a prendere atto della realtà) e telefona uno ad uno a tutti i lupi che anche solo per sentito dire potrebbero far qualcosa. Anche quelli di cui aveva perso i contatti da vent'anni. Ma la crisi economica c'è anche per i lupi, che perciò non esitano a chiedere pagamenti a peso d'oro prevedendo lo sconticino. Talvolta va loro bene (vendendo il proverbiale cannone per ammazzare l'uccellino), talvolta va maluccio (il prezzo esoso si rivela in realtà insufficiente a coprire i veri costi di intervento).

Nelle aziende italiane, vessate da tutto ciò che i progressisti chiamano “medioevo” (cioè tasse assurde, giustizia ingiusta, ruberie diffuse, legalità staliniana, burocrazia asfissiante, approssimazione selvaggia...) si fanno sforzi titanici per restare a galla ma non si cambia mentalità. Alla devastazione dell'industria e delle piccole e medie imprese ha contribuito la mentalità (di importazione americana, e più precisamente di stampo protestante) del ridurre il lavoro ad una merce,[3] ad un elenco di operazioni da eseguire per fare soldi a palate (che per grandissima parte finiranno in tasche altrui),[4] lasciando perdere ciò che non porta “convenienza” (per cui depositi imbrattati da vandali e carri merci arrugginiti conservano le loro brutture per decenni, gli strumenti di lavoro sono insufficienti, mal tenuti e male usati, non si investe sulla formazione dei propri dipendenti perché sembra uno spreco di tempo e denaro...) Dunque la dignità non ha posto, la passione è scomparsa, la creatività è svanita (sostituita dalla ricerca esasperata di una “nicchia di mercato”[5] in cui porre i propri prodotti e fare soldi a palate in quel presunto lasso di tempo di cui concorrenti e imitatori hanno bisogno per “adeguarsi”).

La dignità del lavoro, un concetto esclusivo della mentalità cristiana, deve far posto al mercato: “qui non si fa beneficenza”, se sei anche solo parzialmente incapace o parzialmente inutile dobbiamo trovar modo di mandarti via (e se non lo facciamo è solo perché per sindacalismi e burocrazie ci costa meno tenerti qui). “Tengo famiglia”: per cui non importa che un lavoro sia fatto bene, ma solo che sia fatto quel tanto che basta per incassare soldi entro fine mese, ché bisogna contentare non solo le sei mafie ma anche i vizietti personali come le droghe legali e le tasse indirette (l'abbonamento per le partite, lo zainetto griffato ai figli, la multa per eccesso di velocità, l'internet sul tablet per il music store...) oltre che gli onnipresenti imprevisti.

Di fronte a questo italico spettacolo, la reazione più sovversiva in assoluto è l'edificazione di un monastero.

In un monastero si lavora non per le scadenze, ma per la gloria di Dio. Non per il guadagno, ma per la bellezza. Non per necessità, ma per passione. Non per le esigenze di mercato, ma per dare fondo a quella sana creatività che, in quanto dono di Dio, è per ciò stesso destinata a dare frutto.

Non a caso la scienza è nata nei monasteri, l'arte è fiorita nei monasteri, il diritto è opera dei religiosi,[6] il buon gusto è invenzione dei monaci. Le più bizzarre “scienze” profane (dal galateo al far di conto, dall'agricoltura all'astronomia) devono parecchio a questi consacrati che sapevano vivere, godendosi la vita immersi nella bellezza (per esempio con quella musica portata dagli angeli), e soprattutto sapevano lavorare, mostrando con l'esempio - ancor prima che con le parole - il lavoro inteso come prosecuzione dell'opera creatrice di Dio, come espressione del meglio del proprio io, come avente dignità. E mentre nel resto del mondo si sgozzavano innocenti per ingraziarsi divinità come serpenti piumati, pianeti in congiunzione, draghi sputafuoco che nessuno aveva mai visto di persona, lì in quella terra tappezzata da monasteri fiorivano arti, scienze, diritto, tecnologie, e una concezione della vita accettabile anche per il restante novantanove per cento della popolazione.

Il detenuto Ivan Denisovic', pur sapendo che quel muro che stava costruendo sarebbe stato abbattuto immediatamente dopo essere stato completato, si dedicava alla sua costruzione con la massima perizia possibile. Il suo era il grido disperato di un io schiacciato, una vera e propria apologia dei monasteri, ancor prima che della dignità del lavoro.

I monasteri sono evidentemente un dono di Dio. Un dono che quelle Alte Sfere terrene[7] si ostinano a rifiutare anziché desiderare. Il più schiacciante indizio della fine di una civiltà è l'assoggettamento della casta sacerdotale alle leggi del mercato, alle dinamiche del lavoro come merce, come sopra illustrato: alla rinascita, cioè, della superstizione e dello schiavismo sotto nuove forme e con diversi nomi.[8] Siamo rimasti pochi Ivan Denisovic' sparpagliati e isolati, a domandare umilmente altri operai per la messe: cosa che ha tra le sue conseguenze indirette la chiara percezione della dignità della vita e del lavoro.


1) Piccolo aneddoto. Una Grande Azienda Italiana dismette un certo numero di macchine che hanno passato abbondantemente il ciclo di vita previsto. Una Grande Azienda Non Italiana le “ritira” a prezzi ridicoli, vi dà una sommaria ripulita, vi appiccica la propria etichetta e ci scrive Garanzia X Anni (dopotutto il costo per sostituirle con altre “ritirate” è bassissimo) e le rivende a metà del prezzo di quelle nuove. Una Media Azienda Italiana le compra, ci aggiunge il proprio marchio, e le rivende alla Grande Azienda caricandoci un venti per cento in più, e così le macchine dismesse rientrano con tutti gli onori nella Grande Azienda. Il responsabile della sala macchine si lamenta, ma il suo diretto superiore - appena omaggiato di varie regalie dalla Media Azienda - gli risponde che tutto va bene e che sono regolarmente coperte da garanzia.

2) Nel gergo business americano il bus factor (“fattore autobus”) corrisponde al numero minimo di dipendenti che con la loro improvvisa morte/inabilità/indisponibilità (dovuta per esempio all'essere investiti da un autobus) determinano la paralisi totale di un progetto o addirittura il dover buttar via tutto (cioè l'aver sprecato soldi e tempo e risorse fino a quel momento). Sul bus factor incidono evidentemente anche altre circostanze (come ad esempio le penali da pagare in caso di ritardi). Il bus factor uguale a uno, cioè il più basso, significa che basta un solo dipendente infortunato (o anche passato ad altro lavoro, o semplicemente colpito da problemi di salute o familiari) per mandare tutto all'aria.

3) Nel gergo americanoide in voga nelle aziende si parla di lavoro come commodity. Suggerisco un'occhiatina alle vignette de il consulente imbruttito.

4) Il responsabile si giustificava: abbiamo fatturato 5000 spendendone 8000 ma adesso abbiamo un'entratura... Quale dolce parola! Un'entratura, cioè la possibilità di fare improbabili futuri lavori presso lo stesso cliente, dai quali recuperare la perdita già subìta e su cui toccherà pagare gli interessi alla già furiosa banca...

5) Per “nicchia di mercato” generalmente si intende un nome altisonante affibbiato a qualcosa che i concorrenti non sono al momento pronti a vendere.

6) Fu la famigerata Inquisizione - cioè i domenicani - a inventare i processi equi, l'avvocato d'ufficio, il garantismo “moderno”.

7) Gli eventi del pontificato bergogliano - tra cui la sorprendente persecuzione dei Francescani dell'Immacolata - destano allarme anche nei confronti delle Alte Sfere ecclesiastiche.

8) Del Medioevo, tutto ciò che comunemente si disprezza è invece straordinariamente descrittivo della società di oggi. La schiavitù ha solo cambiato nome: oggi abbiamo fisco, burocrazia, prepotenze istituzionalizzate...

lunedì 29 settembre 2014

Ancora sulla dignità del lavoro

Sicuramente esiste una legione di demoni specializzati nel trasformare il lavoro da “continuazione dell'opera creatrice di Dio” a “presto-presto-presto, dobbiamo fatturare”.

Un amico compra dalla Cina due motori elettrici di particolari caratteristiche, che nessuno qui in Europa si sogna di fabbricare (neppure i tedeschi, ultimo baluardo dell'industria europea). Dopo un po' di giorni di utilizzo si guastano (girano a vuoto). Smontandone uno per capire cosa si è guastato, fa una piccola scoperta: nel planetario c'erano due ingranaggi di plastica. Proprio i pezzi sottoposti a maggior sforzo erano di plastica anziché di metallo, e dopo poco tempo di normale utilizzo dei motori si sono sbriciolati.

Fabbricarli con tutti gli ingranaggi metallici avrebbe fatto lievitare il prezzo del motore di meno di una frazione dell'un per cento. Non aveva senso risparmiare proprio sui componenti più importanti. “Cineserie”, mi si dirà. Ahinoi, è assolutamente la stessa cosa che avviene in tutto il mondo, a cominciare dall'Italia stessa, perché si tratta di una mentalità, non di una leggerezza esclusiva dei cinesi.

Il mondo del lavoro - anche qui in Italia - sembra guidato da due urgentissime necessità: quella di “far presto” (a scapito del “far bene”) e quella di “fatturare presto” (a scapito del “lavorare normalmente”). Come in quella fabbrichetta cinese (che pure produceva motori elettrici di ottima fattura) l'importante era “far presto”. Non ci sono più gli ingranaggi metallici di quel tipo? Ce li facciamo stampare di plastica. Ehi, gente, qui bisogna “far presto” a consegnare perché bisogna assolutamente “fatturare”, perché altrimenti ce ne andiamo tutti a casa!

Non si tratta di “cineserie”: è una mentalità. Anzi: è la mentalità. Non più il lavoro che prosegue “l'opera creatrice di Dio” (e che pertanto esige anzitutto di esser fatto bene), ma solo uno scambio tra qualcosa di fastidioso (il dover lavorare) e qualcosa percepito come assolutamente indispensabile (estrarre soldi dai clienti). “Presto, presto! dobbiamo consegnare e fatturare! Presto!” Ma la luce del bagagliaio non funziona... “Consegnate! il cliente, se proprio si lamentasse dopo essersene accorto, ricorrerà al concessionario”. Ma l'antenna va in corto circuito: se solo si impugna il telefonino, il segnale cade! “Negate il problema! Consegnare! Fatturare! poi dopo distribuiremo -solo a chi protesta forte- una custodia isolante per aggirare la cosa!” Ma non si possono lasciare a terra i viaggiatori... “Venti corse in una giornata possono bastare, tanto nessuno di loro le conterà”.[1]

Così, anziché essere almeno pallida volontà di proseguire l'opera creatrice di Dio, la qualità di un prodotto o un servizio è soltanto una soglia di compromesso tra il costo del rispondere alle lamentele, e il prestigio prestabilito da mantenere. Ciò che i cinesi hanno fatto in quei motori elettrici, si fa quotidianamente in tutto il mondo - Italia compresa - in quasi qualsiasi attività lavorativa che produca un po' più che aria fritta.

È una mentalità che si apprende già a scuola, scoprendo che è “sufficiente” un componimento che inizia e finisce per frasi fatte e con un numero di righe ragionevolmente vicino al “minimo sindacale”. È una cosa che si apprende perfino in parrocchia, davanti a quel cartello in cui si annuncia che per le confessioni il prete è disponibile dalle 15 alle 16 del giovedì pomeriggio: il minimo sindacale per non essere sgridato dal vescovo, il minimo indispensabile da “consegnare” pur di poter “fatturare”.[2]

“Non importa come: fatelo funzionare! Entro fine mese dobbiamo assolutamente fatturare!” Ho conosciuto personalmente chi ha preparato un prodotto da sfornare sul mercato e poi, nell'ultimo tratto di strada, lo ha castrato, straziato, frankensteinizzato, attaccato con lo sputo, snaturato in ogni modo pur di “consegnare” e “fatturare”. Anche quando c'è un progetto, anche quando c'è un ideale, l'ossessione del presto-presto-presto estrae sempre il suo sanguinosissimo tributo.

Ho detto che si tratta di qualcosa di diabolico, perché ho visto gli sguardi assatanati di chi lavora giorno per giorno proferendo e pensando continuamente quelle litanie. Il lavoro diventa a poco a poco una schiavitù da quel demonio invisibile ma concreto: presto-presto-consegnare-fatturare. E come descritto magistralmente in Arcipelago GULag, uno degli effetti collaterali è il dover trasformare il lavoro in apparenza di lavoro. Il dover cercare, nelle pieghe dei regolamenti, ciò che può far risparmiare tempo (a costo di produrre qualcosa che è buono solo per esser gettato via). Il dover trovare un capro espiatorio quando qualcosa va male. Il dover corrompere il fornitore e l'appaltante per dare l'impressione di essere riusciti a concludere regolarmente.

Come col fenomeno della tuchta: impossibile raccogliere tanta legna, ma si mette per iscritto che è stata consegnata; impossibile fermare il trasporto di legna per denunciare l'ammanco, perché le autorità scoprirebbero che il treno viaggia con qualche vagone in meno (non potevano non partire! non importava dover lasciare fermi i vagoni guasti: “qua bisogna consegnare!”). La falegnameria consegna i semilavorati dichiarando di aver lavorato tutto: non aveva tempo di farlo, non aveva tutte le lame per tagliare tanta legna, non c'erano abbastanza operai: vorrai mica far scattare controlli denunciando l'ammanco? Il mobilificio accetta assi e pannelli senza lamentarsi: ha lo stesso problema, gli basta corrompere gli agenti delle verifiche, costa meno del fermare la produzione solo per denunciare l'ammanco. Infine, nei negozi di mobili, qualcuno tirerà un sospiro di sollievo per non dover essere costretto a occupare spazio con mobili che, stante la crisi, non si riescono a vendere. Risultato: mentre sulla Pravda si può scrivere che i negozi sono pieni di merce e il piano quinquennale ha fatto aumentare del venti per cento la produzione, in realtà ci sono lunghe file anche per comprare solo un pezzo di pane. Grazie alla tuchta, cioè la “mancia” che ogni passaggio screma per proseguire la catena.

Quanto descritto in Arcipelago GULag è storia anche dei nostri giorni. Il potente motore elettrico con due delicati ingranaggi interni fatti in plastica rappresenta non tanto la “cineseria”, non tanto l'incompetenza, non tanto la faciloneria, ma il rapporto che si ha con il lavoro, l'ossessione del consegnare presto-presto-presto i lavori. Poco importa che per fretta nel basamento abbiano gettato di tutto per far volume col cemento, poco importa di non aver preso precauzioni contro umidità e vibrazioni proprio nel trasformatore dell'apparecchio, poco importa di aver allungato il vino col metanolo per completare subito le consegne, poco importa di aver depositato uno strato ridicolo di pietrisco prima di pavimentare: l'importante è consegnare, perché qui bisogna fatturare, capito? qui bisogna fatturare! È stato in nome della fatturazione che ci si è accorti che l'asbesto è pericolosissimo solo dopo che ne è scaduto il brevetto, è in nome del risparmio che sono state estese linee ferroviarie sulle coste e altri terreni demaniali piuttosto che nei centri città, è in nome del contentare rapidamente il cliente che si è edificata una palazzina sul letto di un fiume (con diverse vittime alla prima pioggia autunnale).

La dignità del lavoro è un concetto esclusivo della cristianità. L'affievolirsi della fede ha degradato il mondo del lavoro alla mentalità del paganesimo (cioè quella che considerava il lavoro “degradante” e la malattia “sfavore degli dei”). Anche nel mondo cosiddetto “cristianizzato”, dove fino a non troppi anni fa era ancora comunissimo vedere un professionista fiero del suo lavoro indipendentemente dal credo religioso.[3]

L'accanimento con cui si grida presto-presto-presto ha registrato in tempi recenti nuove grandi vittorie di quella legione: l'imprenditoria basata sul cappio delle banche e il burocraticismo[4] dello Stato che anziché promuovere il lavoro lo torchia.[5]

È un segreto di Pulcinella il fatto che la stragrandissima maggioranza delle aziende italiane deve servire un debito con la banca. Anzitutto perché avviare un'attività commerciale richiede capitali considerevoli che, chiesti in prestito, si spera di recuperare e ripagare.[6] In secondo luogo perché anche quando non ci sia crisi, è già faticoso dover pagare gli interessi sul prestito. Molte aziende italiane sono virtualmente già fallite da tempo, perché a fronte di un mai estinto (e mai diminuito) debito con la banca, fanno già una grossa fatica a pagare gli interessi. Basta veder calare gli ordinativi di pochi punti percentuali, ed è il panico (o il fallimento).

L'ossessione del presto-presto-presto-fatturare nasce nei nostri giorni anche e soprattutto per saziare l'insaziabile debito. Per esempio, con un meccanismo perverso, la banca accetta di anticipare soldi sulla base delle fatture (cioè si finisce per pagare interessi reali a fronte di un pagamento virtuale, cioè una fattura ancora non riscossa). L'importante è fatturare! Presto-presto-presto! E così, all'improvviso, quando un'azienda si trova in difficoltà, è costretta a manovre clamorose: come l'anno scorso, quando settecento dipendenti di una grossa azienda non ricevettero lo stipendio ma la promessa di un “breve ritardo” di pochi mesi...[7] Oppure quando si riunisce d'urgenza il consiglio d'amministrazione per capire se è più economico guerreggiare coi sindacati per tagliare un terzo del personale, oppure se dichiarare subito fallimento sperando che il polverone alzato attiri anche qualche soldino di aiuti (che sarà ossigeno per permettere a qualche dirigente di svignarsela prima che la nave affondi).

La grande Flannery O'Connor, quando le chiesero perché fosse una scrittrice, rispose qualcosa come: perché mi riesce bene.

La dignità del lavoro, nel sistema moderno, non c'entra più. Bisogna per forza “sporcarsi le mani”. Lo fanno tutti. Presto-presto-presto: non si possono fare “bene” le cose, basta che sembrino accettabili. Ed anche qui in Italia c'è l'inconfessato desiderio di voler trasformare il “lavoro” in una “rendita”: specialmente di questi tempi, in cui il lavoro è retribuito ai limiti della sopravvivenza, in cui il lavoro specializzato è disprezzato (guardate quanto guadagna un ingegnere o un poliziotto in servizio su strada rispetto a quanto si guadagna nell'improduttivo mondo dello spettacolo). Per questo stiamo passivamente accettando la “cinesizzazione” del lavoro in Italia.


1) Sposto qui in nota il comico esempio della “pizza al salame” in cui mi sono imbattuto non troppo tempo fa. Di persona. Una pizza margherita con una fetta di salame al centro: costo, un euro in più. Quella fetta costava un euro: massimizzare gli incassi sul salame, a costo di esagerare. “Pizza al salame”.

2) In qualità di fedele cattolico, sono convinto che il sacerdote dovrebbe essere disponibile alle confessioni in ogni momento, coi soli limiti del buonsenso. Il prete che ti rimanda sempre all'orario per le confessioni è generalmente uno che non ha capito cosa significa avere un lavoro, una famiglia, gli studi, la salute... La burocratizzazione del ministero sacerdotale è una delle più funeste invenzioni del demonio.

3) Come quegli ingegneri lombardi, a guerra ormai persa, che per acquisita propensione al lavoro “a regola d'arte” - e solo per quella propensione - insistevano a collaudare adeguatamente per decine di ore di funzionamento al banco di prova i motori di quegli aerei che per buona parte sarebbero stati abbattuti dopo una o due missioni, dopo appena una o due ore di volo.

4) Si veda ad esempio l'articolo: Volevo solo vendere la grattachecca.

5) Quanto alla persecuzione amministrativa, si veda ad esempio l'articolo: La vera impresa è lavorare.

6) Un imprenditore che chiede 100 alla banca dovrà ripagarne 118, 140, 180 ecc., a seconda del tempo che ci mette a restituire. Quel di più da restituire andrà estratto dalle tasche dei clienti, riducendo la qualità dei prodotti e dei servizi, limando i propri guadagni. Nel gergo bancario, debito consolidato è il mellifluo nome con cui si indica il caso di un'azienda che non riesce a restituire il prestito ma riesce almeno a pagare gli interessi anno per anno. Benché al Meeting di Rimini si parli del “fare impresa” come una somma di dedizione, passione e creatività, l'ordinaria vita dell'imprenditore è fatta come minimo di compromessi, sotterfugi, artifici, lotte perenni contro il tempo, sorpresacce pressoché quotidiane, multe kafkiane per infrazioni di leggi che nessuno conosceva, promesse che diventano impossibili da mantenere, fiumi di “scadenze” (spesso improvvise, spesso già scadute), e soprattutto fidi, disponibilità, anticipi, “rosso”, “rientrare”, ecc.: il sistema bancario screma guadagni ad ogni livello, guadagni su cui è tabù non solo l'indagare ma anche il ragionare.

7) Chi non capisse il concetto dell'operaio che ha diritto alla sua mercede può presentarsi al supermercato, fare la spesa e non pagare, annunciando a sorpresa alla cassiera che lo farà “con un breve ritardo” di pochi mesi. Idem per l'affitto di casa, la benzina, le tasse...

sabato 20 settembre 2014

Faremo soldi a palate

“Faremo soldi a palate!” disse con voce entusiasta strozzata in gola l'amministratore delegato. Durante la riunioncina informale al bar avevano avuto un'ideuzza geniale: un Facebook per gatti e cani (oppure, non ricordo bene, un Twitter per gli appassionati di cucina, o un Whatsapp per sportivi, o qualcosa del genere). “Dobbiamo solo trovare un programmatore capace di scrivere un clone di Facebook in una settimana”, disse sorridente un commerciale per smorzare i facili entusiasmi, ma ricevette occhiatacce come un menagramo.

La tag-line dell'amico che anni fa ha ispirato e configurato questo blog è “faremo soldi a palate”. Descrive l'illusione che il successo nasca non da un misto di enorme impegno ed enorme fortuna, ma da qualche idea nata per caso, unendo le buzzword più in voga del momento (tablet, facebook, stampanti 3D, selfie, internet, gatti, cellulari...) e illudendosi di realizzare in poche settimane un successone che permetterà di campare di rendita per i secoli a venire.

È una malattia vecchia come il mondo. In ogni momento della nostra vita aleggia sempre la proposta del Gatto e della Volpe: fare soldi a palate, subito e senza sforzo. Il gioco del lotto come tassa sull'ignoranza: “hai mai sognato di fare altro?” L'idea di diventare ricchi sfondati lanciandosi come cantanti. Il teorema dei film hollywoodiani (azione o romantici, tutti uguali): vince il predestinato grazie alle sue decisioni improvvise, banali, emotive.

Da anni le aziende italiane vengono strangolate dalle tasse (un'allarmante quantità di grandi marchi Made in Italy è ormai di proprietà estera) e c'è ancora gente che crede che la ricchezza sia a portata di mano, in attesa di una nostra eroica decisione improvvisa ed emotiva, presa senza pensare, senza ragionare, senza saper aspettare. Sono convinti che il successo nasca dal voler decidere di avere successo, come quei delinquenti di mezza tacca che in meno di cinque secondi sognano, pianificano, decidono e attuano una rapina. Sono convinti che l'arte nasca dall'improvvisazione selvaggia, come quegli imbecilli armati di spray che vanno imbrattando muri senza neppure avere le idee chiare su cosa scrivere. In tempi di crisi, si diffonde la mentalità bolscevica, quella che per realizzare le voglie del momento dei pezzi da novanta non esitò a sequestrare fino all'ultimo chicco anche il grano più prezioso e intoccabile, quello destinato alla semina. E un intero popolo morì di fame.

“Faremo soldi a palate”: più impulsive sono le decisioni, e più gli autori del disastro si considerano coraggiosi e si aspettano il successo: perfino nel mondo del lavoro. L'ideuzza improvvisata durante la pausa caffè diventa legge immodificabile un minuto dopo, costi quel che costi.

domenica 17 agosto 2014

Vita coi nonni

Stare a casa dei nonni per più di un paio d'ore è un problema. Sistematicamente, ogni volta che mi avvicino al bagno, uno di loro due ha un'urgenza urgente urgentissima. Stare lì un'intera giornata è un grosso problema. Stare due o tre giorni è un enorme problema. Così, ho sviluppato una speciale serie di tattiche per andare in bagno senza farmi notare. Solo che non funziona bene nessuna. Quando sto in bagno, c'è sempre un momento in cui odo il caratteristico spàsh-spàsh delle pantofole del nonno che si avvia a bussare alla porta del bagno, sorprendendomi che abbia lasciato in solitudine il televisore, sia pure durante la pubblicità.

Il nonno, forte del suo status di persona anziana e ammalata, esibisce i tipici capricci dei bambini. Come il mangiare rumorosamente a bocca aperta con un fastidiosissimo ciòmp-ciòmp (riesce a sgranocchiare perfino il brodo). Forte del fatto di essere stato ampiamente sgridato dai miei e dagli stessi nonni per un rumore dieci volte inferiore quando ero bambino, un paio di volte gliel'ho fatto notare. Se l'è presa a male ma il rumore è terminato immediatamente (anche nei giorni successivi, almeno finché ero presente). Sul momento in cui mi è sfuggita la lamentela ho provato perfino rimorso, rendendomi conto solo successivamente che il farglielo notare è stato qualcosa di positivo perché è stato un freno al lasciarsi andare.

I nonni passano le giornate in adorazione davanti al televisore, interrompendo solo per andare al bagno e per dormire, distratti al più da una visita di un parente. È una vita triste l'aspettare senza avere ben chiaro cosa si aspetta. I figli hanno preso la loro strada, qualche nipote (cioè solo il sottoscritto) viene incaricato di piccoli servizi da loro (cioè tener loro compagnia), della Chiesa non gliene importa niente (ma ci sono dieci santini di padre Pio sparsi per casa: questa sì che è fede, ragazzi!) e di quando in quando si lamentano dell'incessante pioggia di tasse e balzelli che continua a vandalizzare quel poco che avevano messo da parte in una vita di stenti.

Due nonni con tre televisori in casa. Uno in cucina, uno nel soggiorno, e un altro nell'altro angolo del soggiorno. Una media di uno e mezzo a testa. Ci sono da spostare alcuni mobili: il nonno comincia a pretendere un televisore in camera da letto (la nonna dorme in soggiorno e il televisore davanti al letto ce lo ha già). Ho fortunosamente rinviato il problema. Ci manca solo che il nonno provi l'ambitissima estasi del rimanere giornate intere a letto davanti al televisore. Ci manca solo che il suo ultimo sospiro sia accompagnato dalla pubblicità del dentifricio. I drammi della vita sono questi: vedi i nonni spegnersi, e il loro unico tabernacolo è il televisore, e ti tocca giocare la carta del nipote pigro e perdigiorno pur di non assecondare il desiderio di avere il televisore in camera da letto.

sabato 16 agosto 2014

Tabernacoli moderni

“Stanno facendo insegnare a tutti il digitale”, mi disse con un po' di entusiasmo il nonno mentre nel televisore scorrevano immagini di panciuti anziani in giacca e cravatta che fingevano di seguire attentamente una lezione. Per un attimo osservai il nonno e pensai con orrore alla possibilità che le sue ultime parole in vita potessero essere proprio come quelle. “Il digitale”, perbacco, “insegnare a tutti”, per giove!

La vita del nonno si va lentamente spegnendo. Mangiare, dormire, guardare la tv tutto il giorno, che è diventata di fatto il suo tabernacolo. Gli eventi che per un attimo lo svegliano dal torpore sono insignificanti come quella conferenza su qualcosa di digitale ripresa dal telegiornale regionale, che mi ha commentato sorridendo. Un sorriso che è più un invito a fargli compagnia che la gioia per una conferenza sul “digitale”, digitale di non si sa che cosa.

L'ultima volta che sono stato da loro ho sentito il nonno lamentarsi che la sua vita non vale la pena essere vissuta. Forse lo diceva solo per attirare l'attenzione. Voglio sperare che l'abbia detto in un momento in cui si sia reso conto di cosa significhi donare le ultime ore della propria vita alla televisione.

Se avesse un po' di fede forse sarebbe tutto diverso. Ma ha vissuto per una vita intera senza mai esserne attirato. Ha visto il male che certi preti hanno fatto a me e alla mia famiglia. Sarebbe già una grande grazia se accettasse, anche solo per simpatia, di ricevere gli ultimi sacramenti (buona parte della grande grazia consiste nella decenza liturgica e umana del prete che si troverebbe ad amministrarglieli).

lunedì 11 agosto 2014

Tabernacoli

Si prepara una calda e stanca giornata di agosto. Sono le otto del mattino ed entro dai nonni. Il nonno è lì in cucina imbambolato a guardare un vecchio telefilm d'azione e sparatorie in cui i pur numerosissimi proiettili non colpiscono mai nessuno.

Con fatica gli devo ricordare che c'è da muoversi per le analisi. Senza staccare lo sguardo dal televisore mugugna qualcosa che dovrebbe significare “subito” e che invece serve a prendere tempo. Gli dispiace abbandonare quella visione beatifica proprio adesso. Lo schermo mostra una jeep che attraversa lentamente una strada sterrata, con due tizi in piedi nel cassone armati di fucile e con espressione truce. Sarebbero un ottimo bersaglio, ma loro stessi sanno di essere in un telefilm in cui nelle sparatorie non muore mai nessuno.

In tempi non sospetti san Pio da Pietrelcina lamentava che il «tabernacolo del demonio» stava entrando in tutte le case. Parlava del televisore, non di internet. La televisione è peggio di internet poiché si fruisce passivamente. Ci si mette lì in «adorazione» lasciandosi diluviare addosso la banalità, in perenne attesa di emozioni o di qualcosa di meglio. Il demonio, più che la cattiveria, è impegnato a promuovere la banalità. Che può assumere perfino i contorni innocenti del telefilm con la sparatoria con migliaia di pallottole e nessun morto, nemmeno un ferito, neppure di striscio. Distorcere la realtà, a lungo andare, è più grave che distribuire sudiciume.

Il nonno si avvia verso la fine dei suoi giorni cibandosi di televisione. Come ad esempio quei vecchi e stupidissimi telefilm trasmessi alle otto del mattino di uno sperduto giorno del mese di agosto. Si leva al mattino e accende il televisore. Lo spegne solo per il pisolino pomeridiano. Dopo diverse esitazioni finalmente riesce a spegnerlo di sera per andare a letto. Poi magari dopo mezz'ora che si rigira nel letto decide di non aver sonno: torna in cucina e riaccende il televisore, per una o due ore supplementari di «adorazione».

C'è gente finita nel calendario dei santi per molte meno ore di adorazione. Davanti ad un diverso tipo di «tabernacolo». Comincio a temere che quella razza si sia estinta. Lo temo da quando andai a far visita a quelle suore e scoprii che passavano la sera davanti al televisore. Chi sferruzzava, chi rammendava, chi sfogliava, ma tutte in presenza del televisore. Lo temo specialmente nelle sere d'estate quando vado alla stazione e passando davanti al convento di un altro ordine di suore intravedo l'inequivocabile luce blu che traspare dalla finestra che dà sulla strada.

mercoledì 9 luglio 2014

La vera catastrofe è la reazione

Anni fa, al campeggio, invece delle solite storiette di fantasmi discutemmo su come sopravvivere ad una catastrofe. Un banale guasto dell'ascensore dell'edificio dove abitano i miei nonni, protrattosi per quattro giorni, a suo tempo mi aveva all'improvviso riacceso l'interesse su certi argomenti. Nell'allegra ma istruttiva chiacchierata mi sentii in necessità di riportare la discussione dal quantitativo (per quanti giorni si può superare un determinato problema) al qualitativo (cos'è che oggi diamo talmente per scontato che cambierebbe tutto se all'improvviso cominciasse a scarseggiare).

Il primo caso da considerare è quello della cicala e della formica. Nel caso di una breve emergenza, orde di cicale guidate pressoché esclusivamente da una paura irrazionale, si getterebbero - con raziocinio inversamente proporzionale alla foga - sulle riserve accumulate delle formiche.

In parole povere, quasi nessuno è preparato mentalmente oltre che materialmente ad una breve emergenza: figurarsi una catastrofe. C'è una solida diffusissima certezza dogmatica che elettricità, acqua, internet e supermercati siano sempre efficienti e disponibili. Eppure bastano poche ore di black-out per scatenare l'apocalisse.[1]

Il secondo caso da considerare è che un semplice senso di umanità porta la formica a condividere quello che ha con le cicale (presumendo che non siano tali per arroganza ma per incapacità), a costo della propria stessa sopravvivenza.

La popolazione di cicale, ad essere davvero onesti, è enorme. E le formiche si troverebbero tutte indistintamente con problemi morali: chi aiutare, chi ascoltare, e come fare per non ergersi a giudice supremo delle disgrazie altrui? A questo si aggiunge il bruciante dramma di trovarsi a cambiare morale più volte: dopo aver fermamente deciso di aiutare, ritrovarsi a desiderare di essere molto più severi e selettivi, o viceversa.

Il terzo caso da considerare è che in caso di catastrofe occorre assicurare non solo il cibo per il corpo ma anche quello per l'anima, e non sto parlando solo di qualcosa di spirituale ma anche di ciò che oggi è universalmente percepito come essenziale alla propria dignità. Se non ci pensiamo un attimo, non ci rendiamo conto di quanto siano essenziali beni di consumo come carta igienica, sapone, lamette da barba, pettini...

Un'immagine che mi ha segnato anni fa è quella delle Memores nelle favelas brasiliane che tra le attività caritative fecero anche quella di parrucchiera. Una donna ottantenne, commossa, le ringraziava: “in vita mia non sono mai stata da una parrucchiera”. Cioè per quelle Memores un'attività apparentemente relativa alla vanità, era stata invece un modo per restituire una dignità a quella donna che apparentemente le era stata negata per una vita intera.

Il quarto caso da considerare è che la società semplicemente non è pronta neppure per i piccoli problemi. Un anziano malato che fa grossa fatica a deambulare, è un problema serio anche se abita al primo piano, figurarsi più persone in quelle condizioni che abitano ai piani superiori e per quattro giorni l'ascensore dà forfait. Amici, parenti e badanti possono essere una soluzione tampone. Ma cosa fare se qualche servizio essenziale (ascensore, fogne, acqua corrente) si protraesse?

C'è di comico il fatto che Hollywood instancabilmente ci racconta storie a lieto fine su catastrofi di ogni genere, sortendo però l'effetto opposto: la banalizzazione.


1) Nel SoCali black-out del 2011 sopra citato si segnalavano scene surreali tra cui questa: con un generatore a gasolio un tizio riesce ad accendere il televisore in cortile, si raduna una folla di persone in crisi d'astinenza da entertainment e subito comincia la rissa su quale programma vedere. È sera, il black-out era cominciato da appena sei ore (sarebbe durato solo altre cinque o sei), e già si arriva alle mani per decidere quale intrattenimento vada onorato.

martedì 24 giugno 2014

Cristiani e Puffi

L'allarme sulla fissazione del voler “curare il tumore con l'aspirina” è solo una delle conseguenze dell'imborghesimento del mondo cattolico e perciò - ahinoi! - anche del movimento di CL. È come se in questi ultimi anni - e specialmente dall'abdicazione di Benedetto XVI - tutte le cose buone per cui abbiamo sempre lottato si stiano lentamente e pacificamente diluendo. Comincio a diventare alquanto diffidente quando sento nominare Cristo. Il che mi tiene sveglio in quest'abbiocco generale, e mi fa notare che sui miei stessi peccati faccio fatica a interrogarmi come un tempo: evidentemente il virus sta aggredendo anche me.

In particolare mi rendo conto della sempre più urgente necessità della preghiera a san Michele Arcangelo. Uno dei tanti indizi è il proliferare di vignette e immagini blasfeme proprio ora che quasi nessuno se ne preoccupa più (oppure, come quella diocesi brasiliana, ci si limita a “monetizzarle”). Quanto più la blasfemia è gratuita - e dunque immotivata - tanto più c'è da allarmarsi su certi discorsi del “ben altro, ben altro”, quel benaltrismo de' noantri tutto concentrato a guardarsi l'ombelico che troneggia sul sazio ventre.

Bisogna oggi diffidare da chi nomina Cristo: in 999 casi su 1000 sta parlando a vanvera, sta solo traslando “cristianamente” il discorso dei Puffi (quello in cui “puffiamo una cosa puffosa puffosa che si puffa puffando”). Ormai sono cinquant'anni che il mondo cattolico avanza a suon di buzzwords, di parole eleganti preconfezionate (e che dopo qualche mese pacificamente passano di moda), una moda sopravvissuta perfino alla rivoluzione sessantottina. Occorre diffidare da chi oggi nomina Cristo, perché quasi certamente Lo sta riducendo ad un discorso su Cristo, ad un'etichetta elegante per la propria tolleranza all'imborghesimento.

Sono troppi, ormai, gli ambienti ecclesiali a cui non si può augurare altro che una sana, brutale, accanita persecuzione purificatoria. Spesso perfino a quei bravi cristiani, laici e sopratutto chierici, che pur con un cuore d'oro e una grande intelligenza subiscono passivamente la devastazione conformista così rapidamente avanzata. Dopotutto basta nominare “Cristo”, la parola magica che certifica tutti i discorsi e che annichilisce i non allineati: sei polemico, dunque sei contro Cristo, hai da ridire, dunque sei contro Cristo, ti lamenti, dunque sei contro Cristo, non hai applaudito al messaggio del presidente di fine anno, dunque sei contro Cristo, stai a guardare quelle cosucce quando i problemi sono “ben altri”, dunque sei contro Cristo...

Di fronte a questi imborghesiti - fossero anche capi e capetti del movimento - probabilmente l'unica risposta è la preghiera a san Michele Arcangelo, perché ricacci nell'inferno i demoni che stanno dedicando un'infinità di sforzi per istigare le anime a ridurre Cristo ad un discorso su Cristo.

venerdì 6 giugno 2014

Si alza il vento

Un film da vedere: Si alza il vento (風立ちぬ - Kaze tachinu). È la storia - alquanto romanzata - di Jirō Horikoshi, ingegnere inventore del Mitsubishi A5M e successivamente dell'A6M “Zero” (il miglior aereo da caccia del mondo dei primi anni della seconda guerra mondiale).

Siamo già abituati agli altri film di Miyazaki - profondi, toccanti, commoventi, intelligenti - ma questo li supera tutti. È la storia di una passione di tutta una vita, la passione per il volo. Jirō non potrà mai essere pilota per problemi alla vista, ma quando gli appare in sogno il conte Gianni Caproni (l'ingegnere aeronautico italiano) che gli mostra il suo Ca.60 Transaereo, capisce che se proprio non potrà pilotare un aereo può pur sempre progettare “l'aereo più bello del mondo”.

Siamo in Giappone negli anni Trenta e sappiamo cosa comporterà la passione di Jirō: ma è proprio su questo aspetto che il film sfida gli spettatori con domande spinose: davvero l'arte per l'arte, la scienza per la scienza? Davvero sarebbe sempre giusto il seguire la propria onesta passione? È meglio un mondo con le belle ma inutili piramidi, o senza piramidi? Chi ha frettolosamente etichettato come “militaristico” il film, ha rifiutato quelle domande, come se si fosse limitato a leggere un asettico riassunto della trama piuttosto che seguire il film immedesimandosi nei protagonisti, come se sulle scene avesse premuto l'avanti-veloce per andare al sodo.

È senza dubbio un capolavoro, ma come al solito il doppiaggio è ciò che rovina il film: andrebbe seguito in lingua originale e sottotitoli. Per la voce del protagonista Miyazaki ha infatti scelto di proposito un non professionista, con un timbro anodino, una voce nasale poco espressiva, una voce da studioso felice di essere concentrato solo sul proprio progetto. I dialoghi sono espressivi più per quello che si vede che per ciò che si sente. Un capolavoro da gustare e che alla fine lascia non solo emozioni, ma una raffica di domande spinose e oneste.

lunedì 26 maggio 2014

Il posto segreto dei funghi segreti

Fino a non molti anni fa il nonno andava per funghi e ne portava quanto basta per un paio di cene. I segreti non durano a lungo e perciò un bel giorno la moglie di un vicino di casa cominciò la procedura di avvicinamento e convincimento: voleva che suo marito e mio nonno andassero insieme per funghi. La nonna fu gentile ma irremovibile: ne parlino tra di loro, io non c'entro. Dopo parecchi mesi di alti e bassi, la “procedura” si rivelò inapplicabile (zero risultati) e per dispetto i due vicini tolsero perfino il saluto, gratificando i nonni di maldicenze trasversali e tentativi di molestie che avevano dell'infantile.

Se la nonna era stata irremovibile, il nonno lo era anche di più. Pochi anni prima un altro posto segreto di certi bei funghi era stato saccheggiato e devastato da uno che aveva ripetutamente promesso di prenderne solo per uso personale e invece li portava al mercatino rionale al negozio del suocero. E siccome il suocero ci guadagnava facilmente, il baldo giovanotto in breve tempo spazzolò via tutto - e non certo con l'attenzione di chi vuole raccoglierne anche nel futuro. Fatto sta che il nonno ci rimase malissimo ed entrò di diritto nel club dei “so dove trovarli ma porterò il segreto fin nella tomba”.

Nel primo caso c'è stata la dinamica del “vedo dunque voglio”. È un atteggiamento impropriamente chiamato infantile, visto che l'intera industria pubblicitaria vi poggia su. Non è necessario vedere coi sensi: è sufficiente l'impressione, è sufficiente lo stimolo per sognare. Basta che baleni l'idea, e la naturale propensione all'avidità farà il resto. Nel secondo caso c'è descritta la dinamica della tragedia dei beni comuni: cioè il trarre benefici senza sostenerne i costi, stimola l'avidità e la devastazione generale a danno di tutti. La tragedia dei commons è solo il naturale risultato dell'inclinazione al male.

martedì 22 aprile 2014

Inutile chiamarli "i grigi"

Dopo l'ennesimo filmetto ufologico-thriller (a suon di “grigi”, “insettoidi” e affini) ho consolidato la certezza che tutto il filone cinematografico degli “alieni segretamente fra noi” è semplicemente il maggior riconoscimento laicista dell'esistenza degli indemoniati. Gli alieni in questione infatti non sono mai chiaramente visibili, non hanno mai intenzioni propriamente benevole, rendono la vita un inferno, eccetera.

La questione degli indemoniati, specialmente all'interno della Chiesa, è spessissimo (e con una certa ossessione) derubricata a problemi psicologici, senza alcuno sforzo per approfondire almeno i singoli casi più eclatanti. Il triste risultato di tale miscredenza è la nascita di un non proprio virtuoso sottobosco di guaritori ed esorcisti fai-da-te, talvolta perfino in buona fede (e non solo per il fatto che lo scetticismo imposto per legge curiale partorisce sempre la creduloneria).

Eppure basta guardare qualche film recente sul tema ufo-thriller e sostituire gli “alieni” con le presenze demoniache. E riflettere su quanto abbondantemente Nostro Signore esorcizzò durante il suo ministero pubblico.

lunedì 31 marzo 2014

Piccole cose di tutti i giorni

Seminaristi e preti gareggiano ad esibire la pancia lardosa che deborda dalla camicia innestata nei pantaloni. Poi con quella voce stridula ed effeminata usano nelle omelie il termine desueto sfamare.

Per lunghi anni ho pregato perché i nonni superassero i problemi di salute che li affliggono. L'ho fatto perché sono affezionato e perché so che ogni attimo di vita in più è un dono. E quindi mi è particolarmente indigesto scoprire che passano il tempo a guardare la TV. Due nonni, due stanze, due televisori, due fastidiosissimi programmi televisivi che sembrano volersi sopraffare a vicenda in termini di pressione sonora e di banalità, per tutto il tempo in cui i nonni non sono impegnati a dormire.

Visto il film Die Welle. Lascia a desiderare, ma negli unici punti in cui è realistico (quando corrono ad imbrattare muri) parrebbe quasi un'apologia del peccato originale: date ai giovani un ideale senza guidarli (cioè senza educarli) e il risultato è totalmente scontato.

Scopro ancora una volta che mi si affezionano persone che non vedono l'ora di fuggire dalla propria famiglia.

Ho rabbrividito nel vedere lo striscione pubblicitario affisso sull'ingresso della parrocchia: Canta e cammina. Come se il popolo di Dio fosse un branco di Lemmings sul ponte del Titanic: orsù, fateli cantare. Sembrava un po' fare eco anche di una delle più cacofoniche canzoni di Claudio Chieffo, quella che ha ricordato a generazioni di ciellini che è bella la strada per chi cammina. Nel “cammina” ciellino c'era però una guida: una compagnia guidata al destino. Di questi tempi bui, invece, gli striscioni parrocchiali sembrano gridare un vuoto, sembrano indicare al branco di Lemmings di cantare e ballare sul ponte del Titanic: orsù, cantiamo, andiamo da qualche parte, purché ci si metta in moto, qualsiasi parte va bene, anzi, volete decidere voi?

Un libro si potrebbe dire “interessante” quando non riesci a smettere di leggerlo neppure per stanchezza.

Certi soggetti che ispirano antipatia sono in realtà semplicemente schiavi di una robusta invidia che provano vergogna a riconoscere. Vergogna perché pare assurdo invidiarti perché stai peggio di loro. Eppure sarebbe proprio questo un punto su cui spremere le meningi e cercare di capire qualcosa di più: perché mai dovresti invidiare qualcuno che sta messo molto peggio di te? Cosa c'è di così importante e “invisibile” da far arrovellare certa gente? Certa gente, incredibilmente, trova come scopo unico della propria vita quello di renderla fastidiosa e infelice ad altri.

lunedì 10 febbraio 2014

White House Down

L'idea che alla fine “i nostri eroi” sicuramente trionferanno è la riduzione laica della speranza cristiana della vita eterna ad una favoletta a lieto fine confezionata in formato commerciabile. La lotta tra il bene e il male viene ridotta ad un combattimento buoni-cattivi inscatolato in un contenitore sempre uguale: tipicamente quello cinematografico.

Il film-favoletta White House Down è l'ennesimo fastidiosissimo minestrone di amenità per bambine brontolone, miscelato a riposanti sparatorie con missili e bombe. Le imperfezioni della trama, della fotografia e degli attori sembrano addirittura pianificate per invitare lo spettatore a miscelare pezzi di realtà e di favole e a scegliere il cocktail che più gradisce. Quella scelta avviene nel momento in cui lo spettatore pensa: no, questo è impossibile, sì, questo invece è probabile: esattamente ciò che avviene all'ora dei pasti quando i telegiornali sembrano suggerirci di definire “ridicole” certe notizie e “allarmanti” certe altre. Ognuno si fabbrichi pure il suo sogno preferito sulla realtà, alimentandolo da stimoli teletrasmessi dalle centrali preposte allo scopo. Il film-favoletta che invita a costruirsi la propria realtà - cioè una qualsiasi edizione gradita al potere, ottenendo il risultato non con la forza bruta ma con un gradevole soft-power - è solo un fervorino nel mare magnum catechetico delle potenze di questo mondo.

Da un po' di decenni Hollywood promuove in modo assillante l'idea che il Santo Popolo Americano, pur coi suoi peccati e i suoi Giuda Iscariota, saprà sicuramente reagire ad un sorprendente attacco, un attacco “esterno” anche se interno. Che si tratti degli alieni o dei talebani, che si tratti di uno scienziato pazzo o dei nazisti, che si tratti di un supercriminale o degli zombie, quando avverrà qualcosa (non “se” avverrà, ma “quando”) il Santo Popolo Americano partorirà sempre il suo “eroe per caso” che prende decisioni istintivamente e perciò vince, che si innamora (mettendo a repentaglio il mondo intero a causa dei propri affetti) e perciò ugualmente vince, che nonostante tutte le avversità finisce per dimostrare sul campo di meritare fiducia e infine che per salvare gli USA e il mondo dalla inevitabile catastrofe occorrerà pagare un qualche spaventoso prezzo (in termini simbolici ed in termini di vite umane).

giovedì 2 gennaio 2014

Anche se facevano ridere...

Avrei dovuto collezionarle perché hanno tutte lo stesso schema. Un personaggio qualsiasi (buono o cattivo) che parla o interagisce con un personaggio notoriamente malvagio, e il finale della vignetta è sempre con quest'ultimo che si mangia (o uccide) l'interlocutore.

Sono vignette teologicamente esatte, pur essendo intese solo a far ridere. Fanno ridere perché siamo stati educati a ridere delle disgrazie di personaggi estranei alla nostra vita (il Dalek che lo extermina, il Sarlacc che lo mangia, il Gozilla che lo spiaccica...) ma parlano esattamente della stupidità umana di considerare il demonio come qualcuno con cui tutto sommato può esserci modo di interloquire. Quella stupidità che cerca (convinta che esista) un compromesso col peccato, una ragionevole via di mezzo tra il bene e il male, un'attenuazione dei rigori della verità (e quindi anche di Colui che è Via, Verità e Vita).