mercoledì 9 luglio 2014

La vera catastrofe è la reazione

Anni fa, al campeggio, invece delle solite storiette di fantasmi discutemmo su come sopravvivere ad una catastrofe. Un banale guasto dell'ascensore dell'edificio dove abitano i miei nonni, protrattosi per quattro giorni, a suo tempo mi aveva all'improvviso riacceso l'interesse su certi argomenti. Nell'allegra ma istruttiva chiacchierata mi sentii in necessità di riportare la discussione dal quantitativo (per quanti giorni si può superare un determinato problema) al qualitativo (cos'è che oggi diamo talmente per scontato che cambierebbe tutto se all'improvviso cominciasse a scarseggiare).

Il primo caso da considerare è quello della cicala e della formica. Nel caso di una breve emergenza, orde di cicale guidate pressoché esclusivamente da una paura irrazionale, si getterebbero - con raziocinio inversamente proporzionale alla foga - sulle riserve accumulate delle formiche.

In parole povere, quasi nessuno è preparato mentalmente oltre che materialmente ad una breve emergenza: figurarsi una catastrofe. C'è una solida diffusissima certezza dogmatica che elettricità, acqua, internet e supermercati siano sempre efficienti e disponibili. Eppure bastano poche ore di black-out per scatenare l'apocalisse.[1]

Il secondo caso da considerare è che un semplice senso di umanità porta la formica a condividere quello che ha con le cicale (presumendo che non siano tali per arroganza ma per incapacità), a costo della propria stessa sopravvivenza.

La popolazione di cicale, ad essere davvero onesti, è enorme. E le formiche si troverebbero tutte indistintamente con problemi morali: chi aiutare, chi ascoltare, e come fare per non ergersi a giudice supremo delle disgrazie altrui? A questo si aggiunge il bruciante dramma di trovarsi a cambiare morale più volte: dopo aver fermamente deciso di aiutare, ritrovarsi a desiderare di essere molto più severi e selettivi, o viceversa.

Il terzo caso da considerare è che in caso di catastrofe occorre assicurare non solo il cibo per il corpo ma anche quello per l'anima, e non sto parlando solo di qualcosa di spirituale ma anche di ciò che oggi è universalmente percepito come essenziale alla propria dignità. Se non ci pensiamo un attimo, non ci rendiamo conto di quanto siano essenziali beni di consumo come carta igienica, sapone, lamette da barba, pettini...

Un'immagine che mi ha segnato anni fa è quella delle Memores nelle favelas brasiliane che tra le attività caritative fecero anche quella di parrucchiera. Una donna ottantenne, commossa, le ringraziava: “in vita mia non sono mai stata da una parrucchiera”. Cioè per quelle Memores un'attività apparentemente relativa alla vanità, era stata invece un modo per restituire una dignità a quella donna che apparentemente le era stata negata per una vita intera.

Il quarto caso da considerare è che la società semplicemente non è pronta neppure per i piccoli problemi. Un anziano malato che fa grossa fatica a deambulare, è un problema serio anche se abita al primo piano, figurarsi più persone in quelle condizioni che abitano ai piani superiori e per quattro giorni l'ascensore dà forfait. Amici, parenti e badanti possono essere una soluzione tampone. Ma cosa fare se qualche servizio essenziale (ascensore, fogne, acqua corrente) si protraesse?

C'è di comico il fatto che Hollywood instancabilmente ci racconta storie a lieto fine su catastrofi di ogni genere, sortendo però l'effetto opposto: la banalizzazione.


1) Nel SoCali black-out del 2011 sopra citato si segnalavano scene surreali tra cui questa: con un generatore a gasolio un tizio riesce ad accendere il televisore in cortile, si raduna una folla di persone in crisi d'astinenza da entertainment e subito comincia la rissa su quale programma vedere. È sera, il black-out era cominciato da appena sei ore (sarebbe durato solo altre cinque o sei), e già si arriva alle mani per decidere quale intrattenimento vada onorato.