domenica 23 novembre 2014

Il movimento liquefatto in movimentismo

In un vecchio articolo di De Mattei leggo una domanda di quelle che scuotono parecchio: perchè i difensori più accaniti del Vaticano II, ed oggi i critici più severi di Gnocchi e Palmaro, provengono dall’area culturale di Comunione e Liberazione?

Molti anni fa non credevo alle mie orecchie quando un caro amico di CL con serietà e gravità mi metteva in guardia: i movimenti passano, la Chiesa resta, un giorno il massimo per la tua vita potrebbe non essere più il movimento. All'epoca mi parve un po' apocalittico. Ne ho visti tanti, in vita mia, lasciare il movimento per i motivi più patetici: convenienza elettorale, confusione tra “CL” e “i quattro idioti che ho davanti”, mancato obiettivo di trovarvi una fidanzatina... Lasciò il movimento anche quel giovanotto apocalittico. Ma quelle parole, di fronte alla domanda di De Mattei, le vedo ritornare improvvisamente a galla.

Il fatto è che il movimento così come l'ho conosciuto non coincide col movimentismo che vedo oggi, dove c'è un accanimento nel mantenere posizioni (culturali, sociali, perfino politiche e teologiche) che don Giussani aveva provveduto a seppellire personalmente. L'accanimento è infatti l'attributo principale dell'ideologia. I termini indicati da De Mattei sono esattamente la descrizione dell'imborghesimento di vaste aree del movimento di CL (la riduzione intellettualistica, dei giussanologi, e la riduzione attivistica, dei cielloti sono il risultato finale dell'istituzionalizzazione di un'esperienza, della riduzione del movimento ad un club).

Era terribilmente fecondo per la nostra vita spirituale l'essere disprezzati dai parroci, rinnegati dai vescovi, ignorati dai media (tranne quando c'era da montare scandali contro di noi). Quelle ingiuste persecuzioni ti condannavano a ricercare sempre le ragioni di tutto. Ti facevano vivere certi gesti (anche semplici come la liturgia delle ore) come una necessità vitale quotidiana anziché come l'affermazione di un'identità. Quel che maggiormente mi convinceva del movimento era ciò che l'accompagnava nella sua pretesa di essere dalla parte della verità: e cioè il fatto che ti sfidava continuamente a verificare tutto nella tua stessa esperienza,[1] senza trascurare nulla di ciò che vivi. Al punto che don Giussani poteva permettersi gesti audaci al limite della temerarietà (ma in fin dei conti educativi perché era sempre chiaro ciò che lui indicava) come il regalare libri marxisti ad un giovane sedicente marxista, o di invitare un giovane ebreo ad andare fino in fondo nella sua esperienza dell'ebraismo (col chiaro sottinteso: non troverai la felicità, perché non è lì ma è in Cristo).

Don Giussani poteva farlo perché i giovani citati non avrebbero potuto più cancellare dalla loro vita l'incontro con lui. Il pilota addestratore può permettersi acrobazie in volo che l'allievo non riuscirebbe a fare neppure in bicicletta. L'aspirante allievo che volesse emularle anche solo a parole farebbe una pessima figura. Invece da qualche tempo a questa parte si vede spesso la scena dell'allievo che pretende di fare meglio e più del maestro, confondendo la sfida ad “andare fino in fondo” come un modo elegante di professare proprio quel comodo relativismo che avevamo sempre condannato. “Comodo” nel senso di -per esempio- porsi senza opporsi. Fino a scene surreali come il confondere il dovuto rispetto ai governanti col servilismo verso certi politici che per qualche misterioso motivo vengono ritenuti “utili”. Piccinerie da cattolici imborghesiti.

Quando il movimento era perseguitato, avevamo continuamente l'esigenza urgente di andare alle radici della nostra esperienza. Ora che il movimento si è per gran parte imborghesito (effettaccio collaterale dell'istituzionalizzazione), quell'esigenza si è ridotta ad un... pomposo discorso sull'esigenza. Confesso che certe volte mi sento un po' tradito, pur avendo sempre verificato che le debolezze interne di CL sono dopotutto perfettamente parallele a quelle dell'orbe cattolico.

A differenza di De Mattei, che probabilmente conosce CL solo dalla lettura di libri e articoli, a me non risulta che l'orizzonte ciellino fosse quello della nouvelle théologie progressista. La sfida a verificare tutto nella propria esperienza era -ed ancor oggi è- in polemica con la riduzione intellettualistica (o sentimentalistica) della fede. Don Giussani prima e don Carròn poi si sono sgolati a ricordarlo per evitare che il popolo bue, mosso dalle piccinerie del momento, cadesse nella trappola. Don Giussani riusciva a citare perfino un De Chardin, senza farne un maestro. Né furono veramente nostri maestri - per quanto li si abbia apprezzati - i vari De Lubac, Von Balthasar, De La Potterie... nomi che ci suonano graditi e familiari,[2] ma nessun ciellino è diventato tale (o almeno rimasto tale) attingendo da loro per capire don Giussani. Ad un osservatore esterno come De Mattei è facile etichettare ma a facilitarglielo è stato proprio il movimentismo di quei sedicenti ciellini che si credono tali perché tappezzano i loro discorsi di “Giussani”, “Carròn” e parole di don Giussani adoperate a mo' di gergo del club.

Come rispetto al resto della Chiesa, anche rispetto a CL si può tentare una prima scrematura osservando chi eventualmente cita il Vaticano II a sostegno di qualcosa e viceversa chi parla in modo da infilare nel discorso qualcosa del Vaticano II (come se stesse perennemente di fronte ad una improbabile commissione inquisitoria sul criptolefebvrismo). Cioè tra chi prende il Concilio per ciò che è, e chi invece lo prende per ciò che il-Concilio-dei-media pretese di essere. Tra chi avverte l'esigenza che Cristo c'entri con tutto (“Cristo c'entra anche con la matematica”, “con tutto il cuore, con tutta la mente, con tutta la forza”), e chi invece ha bisogno di una pezza d'appoggio per affermare qualcos'altro. In tutta onestà, non ho mai avuto l'impressione che don Giussani citasse il Vaticano II più dello stretto necessario, con uno sguardo positivo ma non adulante. Ma i giussanologi di ieri e di oggi, nella fretta di dimostrarsi fedeli a qualcosa,[3] hanno preso fischi per fiaschi ed hanno parlato e scritto e insegnato in modo da trasmettere quella stessa fretta. Questo meccanismo, quest'affermazione di sé, è lo stesso che ha prodotto equivoci in altri ambiti (incluso quello politico e quello dell'organizzazione interna), fino ai patetici attacchi a Gnocchi e Palmaro al solo scopo di affermare (magari in perfetta buona fede) la propria fedeltà a qualcuno.

No, CL non è il prodotto della nouvelle théologie, e le sue autoriduzioni a club culturale/sociale sono o l'effetto in grande scala dell'ignoranza, oppure il risultato dell'istituzionalizzazione e dell'imborghesimento.[4]


1) Un rinomato ecclesiastico raccontava tutto scandalizzato di un giovane ciellino che aveva detto “io credo solo alla mia esperienza”. Anziché leggervi il rifiuto delle ideologie e delle teorie calate dall'alto - se la fede fosse banalmente un contenuto dottrinale, Gesù si sarebbe limitato a pubblicare un libro - il miope prelato credeva di aver a che fare col solito esperienzialismo indifferente all'insegnamento delle cose della fede. Amare Cristo ha sempre avuto come corollario la sete di conoscerLo così come madre Chiesa ce lo presenta. Perciò l'insistenza ciellina sull'esperienza non è stata una ricetta accompagnata da altre ricette, ma è stata la risposta ad un cristianesimo senza desiderio e senza sete, sentimentalistico o intellettualistico. Anch'io direi “credo solo alla mia esperienza” per... rispondere telegraficamente all'insinuazione che ci sarebbe qualcosa dell'umano che non c'entra con Cristo.

2) Fu grazie alle indicazioni di Von Balthasar che la nascente società dei Memores Domini poté ricevere l'approvazione pontificia nel 1988 (pochi giorni prima della sua morte). Fu grazie alle donazioni di William Congdon che poté nascere il monastero alla Cascinazza. La grande gratitudine per Congdon sfocia in una incondizionata ammirazione di tanti tifosi ciellini per i suoi brutti dipinti. Per questo ho usato il termine “familiarità”. Per questo sono convinto che l'eventuale ammirazione per Von Balthasar da parte di tanti ciellini sia il risultato di una “familiarità” piuttosto che di un improbabile balthasarismo ciellino.

3) Il percepire un continuo bisogno di proclamarsi fedeli al Vaticano II è un ottimo spunto di riflessione per quanto riguarda la salute mentale e quella spirituale.

4) Per istituzionalizzazione intendo in realtà i suoi effetti collaterali, tra cui la perdita di una parte di libertà dovuta al fatto che ora siamo “un movimento come gli altri”, cioè siamo soggetti a tutta una serie di noiose omelie e noiosi gesti ecclesiali di cui prima, in quanto perseguitati, eravamo felicemente esonerati.

venerdì 7 novembre 2014

Parrocchie d'entertainment

Un'amica che sta collaborando ad uno spettacolino allestito da un parroco si è vista chiedere di comporre una poesia dedicata alla Madonna. Subito ha messo mano al telefonino per subappaltare la fastidiosa incombenza chiedendomi di buttar giù qualche riga o magari l'intera poesia già pronta per l'uso. Cioè è uno di quei casi in cui metti in gioco tutta la più delicata diplomazia riuscendo infine nell'intento ma perdendo un'amica.

Il fatto è che per poesia oggi si intende un elenco rimato di espressioni mielose. Tanto più in occasione di festività religiose e ancor più nelle parrocchie, ed oltremodo più per il soggetto scelto: che? far recitare miei versi sulla Virgo Virginum di fronte a degli emeriti sconosciuti convenuti lì per uno spettacolo di intrattenimento? “Sei il solito lamentoso”, mi diceva con perfidia tutta femminile, “non ti si può chiedere nemmeno una cosa che ti farebbe piacere”.

Senza rendersene conto lei stessa ha in quel modo implicitamente ammesso due punti fondamentali. Il primo è che per trasmettere un messaggio occorre anzitutto che il destinatario desideri riceverlo. Il secondo è che non puoi trattare le persone che ami (tanto meno la Mater Divinae Gratiae) con gli stessi metodi con cui tratti le cose (se mi avesse chiesto una poesia sui cingolati agricoli non mi avrebbe trovato “lamentoso”).[1]

Il tipico parrocchiano non è spiritualmente assetato. Ottempera ai doveri del buon cristiano (quando ne ha voglia, e nemmeno a tutti) marcando presenza quel tanto che basta. I parroci italiani ne sono consapevoli (se non della stessa pasta) e sanno benissimo che ad organizzare una conferenza sul come conservare la virtù della purezza vedranno molti meno partecipanti che ad un musical sulla bontà... e vedranno molta più ostilità e derisione, anzitutto dai loro confratelli e da sua Eccellenza Reverendissima che a mezza bocca sta comandando - come il resto dell'episcopato - di escogitare ogni stratagemma contro la desertificazione delle comatose parrocchie.[2]

La perdurante crisi della Chiesa è cominciata (e sta esattamente proseguendo) col vergognarsi di dire chi è Cristo. Per cui le parrocchie sono divenute asettici enti emettitori di certificati e di banalità politicamente corrette. C'è da decenni la sconcertante convinzione che occorra attirare la 'gggente alla parrocchia, blandirla e assecondarla in ogni modo, per poter infine avere la possibilità di spendere una parola giusta, che poi si riduce ad una delle solite frasi fatte: Dio ti vuole incontrare, Gesù ti ama, Dio è amore. È lo stesso tipo di errore di chi vizia i propri figli: per indurli a mangiare due cucchiaiate di verdura cotta, devono blandirli con carriolate di doni, dolcetti, promesse, salatini, merendine, regalini, tutto circondato da sorrisi e da adulazione, ottenendo invariabilmente il risultato opposto.[3]

L'amica di cui sopra, incaricata di una particina secondaria nello spettacolo, ha perciò avuto a titolo onorifico compensativo il compito di comporre e leggere una poesiola. Immaginatevi il parroco mentre glielo domanda pensando: facciamogliela fare sugli angeli, anzi no (a causa di quel film idiota che han fatto in TV), facciamogliela scrivere su Gesù, anzi no (le carismatiche della parrocchia se ne risentirebbero), facciamogliela fare su san Francesco, anzi no (duplicazione di temi già trattati), facciamogliela fare sulla Madonna (uh, beh, insomma, che ci vuole? tanto è facile, uscirà pure una cosa dolce come piace alla gente!)... I nomi che più abbiamo cari vengono trattati come “temi”, come “oggetti”, come magiche buzz-word da assemblare insieme (questo sono diventate le omelie oggi: un manierismo sdolcinato costruito sulle macerie del lessico cattolico).[4]

Nelle parrocchie d'entertainment (cioè, oggi, pressoché tutte quelle non piccole) non c'è posto per i ciellini di una volta: questi ultimi ancor oggi pensano che un'adorazione eucaristica[5] valga più del musical francescano, si esaminano prima di decidere se andare a fare la Comunione, si entusiasmano più ad ascoltare le verità di fede che le partite di campionato, provano disagio quando vengono cooptati (a marcar presenza, a lavorare, a pagare) per far sembrare riuscita qualche noiosa iniziativa parrocchiale o diocesana, hanno la fissazione di non voler vivere inutilmente neppure per un istante, sono convinti che è inutile parlare a chi non vuole ascoltare, hanno un fuoco dentro anziché un vuoto. E quel che è peggio, comprendono bene la lingua ecclesialese ma non la parlano, per cui non si può pretendere la loro complicità mentre li si prende per il sedere.[6]

Gli archeologi del quarantesimo secolo, riportando alla luce chiese-garage, paramenti-tendaggio, pigiami-clergyman, icone-sgorbio, poesiole mielose sulla Regina Angelorum, si chiederanno cosa diavolo sia successo alla Chiesa tra la fine del XX e l'inizio del XXI. Come mai ci si sia tanto affannati ad allestire campetti di calcio, impianti di amplificazione, orridi padre Pio, spettacoli musical con contorno di sdolcinate poesiole “mariane”... si chiederanno cosa diavolo sia successo.


1) Il fatto che le lamentele suonino sempre fastidiose non esclude il fatto che gran parte di tali lamentele effettivamente comunicano qualcosa.

2) Il tentativo di gestire la Chiesa con tecniche da management aziendale è fallito in partenza perché coloro che dovevano applicarlo hanno da tempo dimenticato quale è il mission statement (pur sgolandosi a dire che “occorre annunciare il Vangelo”) e quale è il core business (pur sgolandosi a dire che “occorre vivere di più i sacramenti”). Qui il management è riuscito in imprese titaniche: allontanamento di buoni sacerdoti, irrobustimento della burocrazia clericale, ridimensionamento di attività utili ma non remunerative spiritualmente e materialmente (e contemporaneo via libera ad attività elefantiache, inutili e ancor meno remunerative)...

3) “Speriamo che sia tu a perturbare la parrocchia”, mi direbbe don Carròn. Contro ogni speranza lo spera anche il sottoscritto, unico (e malvisto) ciellino delle parrocchie del circondario. “Un miracolo è la nostra sola speranza”.

4) Come in quei carceri dove si usa sodomizzare ogni nuovo detenuto, la primissima brutale violenza spirituale nei seminari cattolici è quando i compagni di seminario, i formatori stessi e persino le Eccellenze Reverendissime disprezzano e irridono (sottilmente o apertamente) la pia innocenza di chi ancora aveva un sincero tremore al cuore nel solo pronunciare i sacri nomi. Non c'è da meravigliarsi che tantissimi preti non abbiano alcun timore di smanettare distrattamente coi nomi di Chi ci è più caro, costruendo con indifferenza omelie e fervorini rimestando sempre la stessa minestra, come bambini che dispongono i pezzi degli scacchi come se assemblassero un frizzante party di bamboline.

5) Capitolo doloroso, quello delle adorazioni eucaristiche: chitarre, accompagnamenti musicali, fervorini da vomito, ostensori da barzelletta giacobina, panchette per poggiare il deretano fingendo di essere ancora in ginocchio, gente che si prostra solo per stanchezza...

6) Metti un coro di ciellini che si fa in quattro per preparare qualche canto polifonico. Metti che nella celebrazione della mezzanotte vengono però accontentati tutti quelli che vogliono cantare e suonare (eh, sì: in parrocchia bisogna dare spazio a tutti). Metti che infine l'untuoso parroco ringrazi il coro ciellino col solito frasario clericale (“oh, bel canto, ha aiutato molto la preghiera” eccetera), e qualcuno di quei volenterosi ragazzi tradisca per un attimo un sorriso di sarcasmo (sappiamo benissimo che quell'adulazione è il “pagamento” per il servigio). E così al Natale successivo non c'era posto per il coro, “però forse, si potrebbe, magari, ci risentiamo, vedremo”...

martedì 4 novembre 2014

Il cancro dell'assemblearismo

In una noiosa assemblea della scuola di comunità un giovane che aveva preso a frequentare da poco sbagliò un termine in una domanda. Una banale confusione di termini lo marchiò a vita, perché un microsecondo dopo erano già tutti a sdegnarsi e a sottintendere: abbiamo capito di che pasta sei fatto, abbiamo capito dove vuoi andare a parare. Dopo aver visto frustrati molti sinceri e umili tentativi di dimostrare di non essere affatto dalla parte sbagliata (nei quali fui anch'io gettato dalla parte del torto perché tentavo di sostituire alla loro istintiva reazione un semplice ragionamento), il giovane prese definitivamente la via per altri lidi.

Buona parte del vergognoso sfascio della Chiesa cattolica è dovuta al fatto che gli ecclesiastici innamorati delle mode sessantottine hanno cancellato il metodo tradizionale (e cioè: questa è la verità, io ve la insegno, voi la apprendete e la verificate) per sostituirlo con un assemblearismo in cui ognuno fa la propria omelia recitando il personaggio che ha scelto. Nel collaborare alla pulizia di uno sgabuzzino parrocchiale (da dedicare a ennesima sala riunioni) scoprii una vecchia busta con dei cartoncini grigioverdino con su stampigliato, a caratteri di macchina da scrivere anni settanta, domandine ai laici su quanto e come coltivassero “relazioni amicali” (sic) e altre imitazioni del già patetico lessico sessantottardo, che - a quanto pare - vescovi e preti intendevano sorpassare a sinistra.

Uno dei principali motivi dell'ostilità al movimento di Comunione e Liberazione (sentimento condiviso dai viceparroci di periferia fino agli alti papaveri ecclesiastici) era che il metodo della scuola di comunità non solo era una contraddizione netta di quell'ammorbante assemblearismo spontaneista di parrocchia, ma ne dava anche ragione: apprendere quelle Verità è addirittura vantaggioso, conveniente, cambia la vita, fino alla baldanza del “ti sfidiamo a verificarlo”, fino al don Giussani in persona che invitava esplicitamente a disertare la scuola di comunità qualora questa non ti facesse uscire cambiato (il che evidentemente richiede oltre ad una tua tensione, anche la tensione di chi guida e -in qualche modo- di chi vi partecipa con te).

Purtroppo anche i ciellini vanno in parrocchia, assorbendone spesso quella mentalità ancora durissima a morire e quei fastidiosissimi atteggiamenti, e le scuole di comunità si sono ridotte ad impegno dove marcare ordinatamente presenza. Non mi fa più meraviglia che esistano persone come quel giovane sopra citato che per un motivo banalissimo si allontanano polemicamente dal movimento, per poi magari sputarvi veleno venti o trent'anni dopo solo per un confuso brutto ricordo. La cancrena che sta invadendo vaste aree del movimento di CL si manifesta proprio coi caratteri dei gruppetti parrocchiali: l'assemblearismo “sociale”, l'entusiasta autoriduzione a professionisti dell'entusiasmo, la recitazione di un copione autoconfezionato e l'ostentazione di un gergo, quelle fastidiosissime frasi fatte («nessuno è perfetto! ma sei sempre polemico? non volevo intendere questo! ma con questo cosa vorresti dire?»), e l'idea di essere superiori agli altri nella misura in cui si dicono e fanno cose cielline.

Quella cancrena ha due forme: l'intellettualismo da giussanologi, e l'attivismo da cielloti. Da diversi anni me ne lamento con frequenza, scoprendo che sono vizietti ereditati dalla parte malata della Chiesa. Proprio quella da cui rifuggivamo, proprio i motivi per cui fuggivamo.