mercoledì 2 novembre 2016

Storie ridotte a elenchi di immagini

Nel solito filmetto di propaganda bellica americana si vede, nelle prime scene, il supercattivo che spara una pistolettata alla nuca di una povera commessa di un negozio, in lacrime perché cosciente che la sua morte è imminente. Alla giovane commessa, bella e con un sorriso da favola, spetta la morte perché altrimenti lo spettatore potrebbe avere la possibilità di pensare che il supercattivo non sia tale al cento per cento. È un vecchio mezzuccio utilizzato dalla cinematografia dei cafoni di tutti i tempi (come ad esempio gli spaghetti-western): avvisare subito lo spettatore che per il supercattivo di turno non ci saranno perdono e pietà, neppure la pur vaga possibilità di redenzione.

Raccontare una storia è stato fin dalla notte dei tempi un modo per trasmettere conoscenza senza rischiare con la diretta esperienza. C'è stato bisogno di storie per mostrare la differenza fra coraggio e temerarietà, fra paura e timore, fra generosità e spreco, fra amore e infatuazione, fra decisione e ostinazione... La capacità di raccontare - e ancor più quella di ascoltare, ossia di apprendere - hanno risparmiato un'infinità di dolori, fastidi e imbarazzi.

Nella cinematografia d'entertainment la trama è in genere solo un'impalcatura su cui vendere immagini. Il glorioso film d'azione sopracitato ha bisogno di una innocente "morte introduttiva" per poter esibire la tipica e prevedibile fiumana di mazzate, coltellate e pistolettate come necessaria - una reazione che si autosostiene fino al prevedibile finale di vendetta efferatamente compiuta.