martedì 20 dicembre 2016

Peccati inconfessabili: il far attendere

Potrei scrivere un libro - anzi, un'enciclopedia - su una delle paure più invincibili di oggi: quella di dover attendere. E sul peccato gravissimo e quasi mai confessato: quello del far attendere quando non è assolutamente necessario.

Attendere: cioè sprecare parte della propria vita. Far attendere: cioè sprecare parte della vita di qualcuno che dipende da te.

Quanti gesti della vita normale sono dettati dal terrore di dover attendere: il consultare frenetico degli orari, il comprare l'auto per poter partire senza dover attendere l'autobus, il tentare di scansare la fila, il precipitoso organizzarsi (anche nelle piccole cose) per non rischiare nemmeno un minuto di "tempi morti". Si ha il terrore di attendere perché oggi, con quel cristianesimo di facciata (e con la mentalità mondana che fa sempre capolino anche nei più "praticanti"), il tempo passato attendendo è un "tempo morto": è la morte, è la vita senza significato, è il mondo e l'umanità che continuano a girare mentre tu sei lì imbambolato ad attendere, come congelato nell'anima.

I nostri nonni e bisnonni risolvevano santificando le attese sgranando rosari. Non avevano bisogno di pigiare sull'acceleratore, non portavano addosso lettori MP3 sempre carichi, non avevano la borsa piena di romanzi noiosi già dalla prima pagina, non imprecavano a tutta voce se l'autobus latitava per venticinque minuti consecutivi. Non avevano nel DNA il terrore nero di dover attendere, anche se un po' di paura c'era (il nonno, per il treno delle otto, puntava la sveglia alle cinque, calcolando la possibilità, una volta in stazione, di poter tornare a casa senza fretta a ripescare qualcosa che aveva dimenticato ed ugualmente riuscire a tornare a prendere il treno delle otto: oggi si fa l'esatto opposto, si arriva in stazione alle otto meno un minuto e si impreca fuoco e fiamme se il treno tarda due minuti o più).

Il far attendere quando non vi è nessun solidissimo motivo è la peggior tortura che si possa infliggere. L'impiegatino statale che ti dice di attendere (il suo caffè ha più priorità della tua vita e del suo lavoro), il pretino che ti dice di attendere (perché ha paura che il cervello si consumi se per un attimo pensa a come deve fare), perfino il capo regionale ciellino che ti dice di attendere quindici giorni (doveva solo fare una telefonata e farmi sapere, ma aveva paura che qualcuno pensasse che lui si dedichi troppo ai ciellini, troppo poco a quelli che pendono dalle sue labbra, e ancor meno a quelli che vanno da lui senza essere ciellini).

La paura di attendere è massimamente visibile nel traffico. Sembrano ossessionati dall'idea di dover passare dopo di te. Si accaniscono a sorpassarti cento metri prima della loro destinazione, ignorano lo Stop all'incrocio, s'infilano fra te e il marciapiede come se tu stessi dormendo, e in tutto questo ostacolano i mezzi pubblici e i furgoni (cioè gente che lavora). Una giungla urbana dove tutti pretendono di ruggire e soprattutto di fare i furbi per evitare di attendere una frazione di secondo in più.

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